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Vivere con filosofia”


Possiamo imparare a vivere con filosofia, per la filosofia e attraverso la filosofia. La prima dizione potrebbe esporsi a qualche fraintendimento, se quel “con” indicasse soltanto un luogo comune, un pregiudizio. Per altro, ben lontano dall’estinguersi. Secondo il quale, filosofi e filosofe sarebbero individui distaccati, lontani dalle preoccupazioni del mondo, pacificati, autosufficienti, imperturbabili, dotati di un’ironia sprezzante e altezzosa (evenienza per altro purtroppo possibile).

Soltanto intenti a preoccuparsi delle loro metafisiche fantasticherie ed elucubrazioni: ora nei salotti, ora nelle loro Torri d’avorio. Come se la filosofia potesse risolvere tutti i problemi, darci la felicità, aiutarci a ben vivere e a stare meglio, a patto che la si coltivi e frequenti come una sorta di lenitivo e di farmaco dell’anima. Mentre il fascino del filosofare, per lo meno a mio modo di vedere, è di altra natura. Il dedicarsi a quest’arte del pensiero, del dubbio, della riflessione (con le sue tecniche, i suoi lessici, una storia di ricerca infinita alle spalle) ben si adatta invece agli spiriti inquieti; a chi preferisce cercare e trovare nuove domande, piuttosto che qualche comoda, anche sofisticata, soluzione. Chi si riconosce nell’insofferenza verso il fin troppo scontato, nel continuo ricercare, nell’accettare di non aver paura di sfidare il consueto, non perché nevrotico, ma perché trascinato dalla passione di conoscere e di conoscersi, è dunque già filosofo (di “strada”, dilettante, curioso perdigiorno) spesso a sua insaputa. Appartiene ad una corrente, anche autorevole quando rovistiamo tra le pagine della storia della filosofia contemporanea, che considera l’esperienza del vivere (la più soggettiva ed autobiografica, quale essa sia) il punto di partenza induttivo, personale e locale, indispensabile per intraprendere l’avventura del filosofare. Grazie al quale, quali siano queste esperienze (gioia, dolore, mancanza, anelito verso l’infinito, giustizia, bellezza, istinto, ragione…) sempre traducibili in linguaggi umili o colti, sia possibile innalzare le capacità intellettuali, spesso silenti, che sono potenzialmente insite in ogni donna e in ogni uomo. Siamo filosofi se de-costruiamo gli oggetti più semplici o complessi per scoprire in essi quanto ci era sfuggito, per scoprire negli interstizi la meraviglia o l’orrore che non avevamo saputo ancora cogliere e analizzare. “Prendi le cose con filosofia…” , ci viene al contrario ripetuto, dinanzi alla cattiva sorte, al male di vivere, alla voglia di reagire e di indignarci. Nulla di più anti-filosofico. Sfatiamo, insomma, questa credenza popolare e ingenua, una buona volta! Ben misera cosa sarebbe una filosofia che si ispirasse e limitasse perciò ad una sorta di rassegnazione consolatoria, accontentandosi di pochi spiccioli di buon senso. A meno che quel con non indichi un atteggiamento mentale e un modo di sentire oramai divenuto intrinseco al nostro essere. Uno stile di pensiero, questo, che ci chiederà di venir coltivato e nutrito approfondendo via via il patrimonio filosofico dei maestri. Potremo così apprendere che tutti, se studiamo le loro biografie, furono e sono attraversati, non a caso, dall’inquietudine, dalle vicissitudini materiali, dalla tragicità dell’esistere: nonostante qualche tentativo - miserevolmente fallito da più di duemila anni a questa parte in Occidente- di darci regole, salutistiche e morali, per vivere decentemente.

Vivere per la filosofia e farsi attraversare dalla filosofia sono dunque espressioni meno ambigue della precedente.

La prima ci riconduce ad una vocazione che possiamo avvertire precocemente grazie a qualcuno che sappia iniziarci al filosofare, a frugare nelle grandi e piccole cose dell’esistenza, a non smarrire l’abitudine del porre domande così spontanee nell’infanzia; la seconda, significa porsi in ascolto, come atteggiamento quotidiano, quale sia la nostra stagione di vita e la nostra professione. Per il salubre desiderio non solo di vivere, di elevare piuttosto la mente verso stati di coscienza sempre più complessi, irriverenti, audaci. Ciò non toglie che, anche senza stimoli altrui, anche in solitudine, tali “rivelazioni” potranno da un lato orientare la nostra esistenza, dall’altro, rendere il bisogno di filosofia una sorta di necessità vitale. Come lo è l’educazione. Come possiamo, come affermo nel mio libro recente “L’educazione non è finita” (ed Raffaello Cortina), del resto oggi immaginare la nostra vita se non in continuo apprendimento?

*Duccio Demetrio (professore ordinario di Filosofia dell'educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all'Università degli studi di Milano-Bicocca)





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L'accento di Socrate