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Nella foto: il prof. Duccio Demetrio


Ho pensato di aprire questo spazio dedicato alle interviste chiamando in causa un docente che sperimenta ogni giorno il rapporto stretto che esiste tra scienza ed esperienza. Il professor Demetrio ( professore ordinario di Filosofia dell'educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all'Università degli studi di Milano-Bicocca) non è un filosofo qualunque, ma possiamo considerarlo il custode della Memoria perché ha creato un luogo simbolo del ricordare: ad Anghiari ha fatto nascere la Libera Università dell’Autobiografia per testimoniare l’importanza del ri-memorare. In quel incantevole borgo medioevale a pochi passi da Arezzo anch’io ho subito il fascino di Mnemosyne, deificazione greca della memoria, e da lì ho iniziato a desiderare con più forza la nostra rivista. L’Accento di Socrate è nato anche per questo, crediamo che vivere con filosofia sia anche non scordare le esperienze di chi ci ha preceduti…



Prof. Demetrio, la prima domanda che vorrei porle è quale nesso intravede tra filosofia ed educazione?


Tra la filosofia e l’educazione - l’una complementare all’altra se concepiamo quest’ultima antropologicamente, se la consideriamo una dimensione costitutiva del nostro essere - il nesso è stretto. Viviamo esperienze educative ed auto- educative (giocoforza auto-riflessive) in diversi momenti nel corso della vita. Spesso non ne abbiamo consapevolezza, quando accettiamo il fluire del nostro esistere come una sorta di divenire ineluttabile o quando non sappiamo cogliere i segni, a livello materiale e simbolico, di quanto ci sta accadendo. Nella fretta e nell’ansia di superarli, di dimenticarli. Quando ci rifiutiamo di abdicare al nostro compito elettivamente umano (se “Nati non fummo a vivere come bruti”), con responsabilità, prendiamo coscienza dei nostri limiti, della ineluttabilità della fine, del nostro destino. Un saltus profondo, un richiamo a saggezze universali, laiche o religiose, si compie e, in quei momenti, entriamo nella maturità più piena. Sono eventi, che di solito insorgono in relazione alla scoperta di quanto sia fragile il nostro corpo. Cresciamo se il pensiero nel dolore, che ci annienta, riesce a mutarsi in pensiero sul dolore. Dinanzi all’irreparabile, alla perdita di chi amiamo, all’invecchiare. Ciò che ci turba radicalmente, è una sorta di segnale nei confronti delle nostre, anche comprensibili, rinnovate resistenze al cambiamento. Questo già pone un problema ad una “pedagogia dell’esistenza” a vocazione filosofica, che non abbia ancora a sufficienza teorizzato e delineato i suoi metodi. L’autobiografia, la scrittura di sé, è, però, uno di questi e può contare ormai su itinerari di lavoro convalidati dalla prassi in molteplici situazioni.

Scrivere è coltivare e provocare la nostra interiorità, i nostri “invisibili”, i lati oscuri, il rimosso. La parola interiorità è, per astrattezza, tra le più complicate da comprendere e spiegare. Per non parlare dell’aggettivo (interiore), che sembra attribuire qualità misteriose, recondite, a persone e a cose. Il loro etimo rinvia infatti, in senso letterale, a qualcosa di nascosto e invisibile. La nozione filosofica di interiorità rimanda alle funzioni tacite del pensiero, alle inquietudini impenetrabili (e insondabili) della psiche, all’inconscio: nondimeno, al diritto di non rivelare i propri segreti, alla libertà di raccontarsi o meno agli altri, al concetto giuridico di privacy. Da quanto detto, è evidente che, a lungo, l’intento di educare alla interiorità bambini e adulti (di convertirli con le buone o le cattive) fu monopolio dell’educazione religiosa. Ciò non evitò, tra mille battaglie durate secoli, che nella tradizione pedagogica umanistica, illuminista e successivamente romantica, la questione venisse affrontata alla luce di altre premesse. La stessa parola introspezione viene introdotta dalla filosofia empiristica e scientifica anglosassone (nel ‘600) a designare le facoltà cognitive atte a decifrare i processi mentali di cui il discente deve impadronirsi divenendo “oggetto” principale del proprio conoscere. Imparando a sperimentare se stessi dinanzi alle difficoltà e redigendo, anche per iscritto, sinceri o veridici auto-esami. L’educazione interiore, per la pedagogia laica - commisurata alle diverse età di chi apprende - consiste in questo. Invogliare a mantenere con la propria vita assolutamente personale un dialogo ininterrotto e suscitare una maggiore responsabilità etico-sociale verso il senso del proprio essere al mondo, verso i valori più importanti, sono questi i due momenti fondamentali affidati a questa prospettiva nuova che la scrittura autobiografica, purché orientata filosoficamente, contribuisce ad avvalorare.



Cosa l’ha spinta a fondare la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, detta confidenzialmente la Libera?


Prima di raccontarvi che cosa sia e rappresenti non più solo per me la Libera, consentitemi di fare una premessa. Dal momento che, come suppongo, ormai si sia compreso che pongo il pensiero, il pensabile, la pensosità (applicato ad ogni momento dell’esperienza umana) al primo posto, credo - e ne sono sempre più convinto - che tali modalità di agire, meditare, contemplare della mente possano e debbano svilupparsi soprattutto attraverso la scrittura di sé. Poiché l’auto-riflessività autobiografica ci obbliga ad avvalerci di formae mentis molteplici (retrospettive, introspettive, classificatorie, costruzionistiche e creative, ecc) non può che essere questo l’impegno, primo e ultimo, che il facilitatore, l’accompagnatore, il consulente in autobiografia che formo e formiamo all’Università di Milano-Bicocca e ad Anghiari è tenuto a privilegiare. Credo che la conoscenza, secondo una lezione sofista, cinica, epicurea e stoica, sia sempre “terapeutica”, poiché non solo ci aiuta a sopportare la sofferenza, ma la trasfigura in poesia e letteratura. Rimette in moto una vita bloccata, ci ri-dischiude alla gioia di essere, nonostante tutto e almeno, ancora vivi. Fino al momento in cui la coscienza non ci debba lasciare o quando il gusto della vita diventi un disgusto non emendabile, nel diritto ad una buona morte.

Questa domanda coglie poi il senso pieno della mia prospettiva e passione educativa. E’ cruciale saper accompagnare in itinere, un autore o un’autrice di sé. Un tirocinio autobiografico, seriamente impostato e insieme concordato, può durare molti mesi e può essere monitorato anche a distanza. Quando la nostra immagine si sfoca, ci viene sottratta ed è offesa, si incrina per ragioni ora sociali ora patologiche, la perdita della capacità di produrre immagini di sé accettabili, incoraggianti e nuove rappresenta la soglia della follia o l’anticamera dell’emarginazione. Prima ancora di un’immagine di sé, pessima o buona (correlabile a successi personali, a conferme o viceversa a disapprovazioni pubbliche, ad autostima o per contro alla peggiore opinione di sé) è quindi importante averne comunque una: meglio ancora, più di una. Purché si sia consapevoli di questo e si sappia essere registi, non camaleonti, di una versatilità affannata, sovente amorale, che il tempo presente ci impone. Rispetto alla quale non tutti si soffermano a riflettere sul suo stato di salute e, tanto meno, spendono il loro tempo a scriverne. L’idea di immagine personale è, al di là delle sue diverse qualità, senza dubbio un concetto operativo. Ci serve per vivere, per orientarci nel mondo, per aggiornare le nostre mappe cognitive e relazionali. Produciamo quindi immagini e attribuzioni simboliche su ogni cosa e persona, per evitare di essere sopraffatti, per tessere legami, per agire, pensare e decidere. Per tale motivo la scrittura, nelle situazioni critiche, contribuisce a ritessere, a riconfigurare la nostra auto-rappresentazione valorizzando il protagonismo – solitario- di questa impresa. Ma, detto questo, vi è una ragione più generale che oggi quasi ci impone di diffondere la scrittura di sé. A tal proposito, consentitemi di citare un passo celebre delle magistrali “Lezioni americane” di Italo Calvino. Il tema è l’Esattezza: “A volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza…La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio…”. Una peste di cui oggi, a più di 25 anni di distanza da quelle parole profetiche, ancora di più possiamo comprendere la devastazione, se ci riferiamo alla invasione barbarica di immagini di ogni sorta. Ancora Calvino: “Viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e a moltiplicarlo attraverso la fantasmagoria di giochi di specchi …Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’ opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’ idea della letteratura”. Parole, queste, che ci invitano, a fare in modo che la nostra immagine, quanto autenticamente crediamo di essere, possa essere ritrovata nell’esercizio (diaristico, memorialistico, epistolare, ecc) della scrittura. In quanto potente antidoto a quella “peste”. La scrittura è resistenza ad essa, è strumento per riscoprire un’immagine di sé soffocata da troppa esposizione alle immagini di consumo, necessarie alla nostra esposizione pubblica, e da un eccessivo loro uso; da una smisurata oralità, discorsiva e narrativa, che contribuisce ad acuire la distanza dell’individuo da se stesso. Cui vien fatto credere che la propria immagine abbia un senso soltanto se simile e omologabile a quella degli altri. La scrittura come possibilità di riconciliazione e di ritrovamento della propria immagine assediata, penetrata, infettata da tutto questo è una via di libertà e di autonomia. Ma occorre averne piena consapevolezza, oltre che psicologica, etica: per ricondurre la produzione di immagini ai loro legittimi proprietari e farne metodo di educazione ed auto-educazione alla cittadinanza e alla consapevolezza.


Questa premessa era indispensabile, ma ci racconti ora della Libera…


Credo che le origini della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, che festeggia quest’anno il suo decennale di attività nel campo della ricerca e della formazione, siano riconducibili ad una domanda alla quale cercai allora, e cerco ancora, di dare un risposta. Innanzitutto rispetto alla mia persona. ”Se facciamo esperienza del vivere e ne siamo protagonisti, primi attori, perché non divenirne anche “autori” e interpreti, perché non cimentarsi, senza mai desistere, con il dovere di conoscere se stessi? Perché non intraprendere un inesauribile auto-esame, mettendo al primo posto l’apprendere dalla propria storia? Senza per questo isolarsi dal mondo”. Per la verità, me la posi molto prima. Quando iniziai a cogliere, già sul finire degli anni ’80, le potenzialità della prospettiva narrativa. Di una vera “svolta” epistemologica, come Jerome Bruner sottolineava, nella quale però ravvisavo alcuni limiti. Quell’enfasi posta esclusivamente sull’ascolto e sulla promozione orale delle storie di vita, pratica già nota all’educazione degli adulti, non mi ha mai convinto del tutto. A meno che quelle storie salvate non venissero poi riproposte, ridiscusse con i loro legittimi portatori. Paulo Freire in Brasile, Danilo Dolci in Italia, sono stati autorevoli sostenitori di questo importante principio. L’adozione della narrazione suscita eventi riconducibili ad un paradigma educativo solo in questo caso: quando il raccontarsi diviene fonte di trasformazioni cognitive e non solo. Anche di ordine morale. Quando il racconto e la sua condivisione si rendono mezzo o metodo di mutamento sociale, di partecipazione. La sociologia delle storie di vita può spiegare atteggiamenti e condotte, ma, in sé, non si prefigge gli scopi che animano invece il punto di vista pedagogico e filosofico educativo. Questa è la sua peculiarità, che -non a caso- ha non poco da condividere sia con la pratica medica e clinica, che con l’azione politica. Laddove esistano indizi trasformativi, quale ne sia l’orientamento, quasi impercettibile, latente o manifesto, si accende un evento (una risorsa) di carattere educativo. Nelle circostanze più diverse: intenzionalmente, più spesso, o per motivi del tutto accidentali.


Che valore possiede la scrittura autobiografica nella crescita individuale?


Troppe concessioni alla narrazione verbale possono rivelarsi altrettante trappole, per confermare immobilità, se non aperte opposizioni al cambiamento. Tanto individuale, quanto collettivo. Questo alla Libera l’abbiamo compreso presto. Si trattava, invece, di considerare tale naturale facoltà umana sotto un’altra luce. La memoria e la sua scrittura, diventavano così per me i due momenti auto-educativi elettivi, rispetto ai quali intravedevo il progetto di delineare programmi personalizzati di crescita ed emancipazione intellettuale. Nel corso degli anni, queste intuizioni in me si sono consolidate e ne è una testimonianza vivente la comunità di scrittura che è andata crescendo ad Anghiari, con diramazioni in tutta Italia: formata da decine e decine di autobiografi (soprattutto donne) che, tenacemente, nei luoghi più diversi vanno creando oggi circoli di narrazione e scrittura con questi presupposti. Sono occasioni di aggregazione intergenerazionale che suscitano, in chi vi aderisce per lavorare auto-biograficamente, un ampliamento della propria consapevolezza esistenziale, una diversa rappresentazione di sé e del mondo. L’autobiografia, se riusciamo ad intraprendere questo cammino fino in fondo, irto di incognite, dubbi, interrogativi (fecondi sempre), ci espone piuttosto al rischio di profondi spaesamenti; la scrittura fa emergere il rimosso, costringe a confrontarsi con errori, sofferenze, sensi di colpa….Tutto questo non ci “accarezza” di certo, ci provoca piuttosto, ci invita a riscrivere quella nostra immagine che eravamo riusciti a costruire giorno per giorno nel corso dell’esistenza. Se ci “accarezziamo” in tal modo, vuol dire che ci piacciono i letti di Procuste. Ciò dovrebbe sfatare gli stereotipi dei detrattori: si scrive per masochismo, più che per indulgente narcisismo verso se stessi. Ma, proprio per questo, la scrittura intrapresa individualmente o assistita da specialisti, come si è detto, si rivela auto-formativa. Poiché ti mette a nudo non solo rispetto alla tua salute psichica, e in questo differisce dalla psicoterapia, ma rispetto alle debolezze e lacune su un piano etico-filosofico, ti incalza e chiede chi sei e che vuoi. È quindi inevitabilmente una pratica filosofica o un’iniziazione ad essa (ne parlo a lungo nel libro che sintetizza dieci anni di lavoro ad Anghiari: La scrittura clinica, Cortina, 2008). In quanto tale, lo scrivere ti trasferisce, dal tuo piccolo mondo, accogliente o meno, ai grandi problemi, eterni, anche religiosi, che una persona dotata di maturità e di sensibilità esistenziale non può non avvertire. A meno che non si voglia confondere questo tirocinio strettamente individuale e auto-analitico con qualche decadente suggestione New age, alla ricerca narcisistica della propria felicità. Purtroppo, non sono pochi che ne hanno frainteso il senso e fanno dell’apprendistato autobiografico- dedicato a scoprirsi maestri di se stessi- una sorta di passeggiata soltanto emotiva e la più indulgente verso se stessi.


Non è certo una passeggiata emotiva....a proposito, mi interessa chiederle cosa intende per “cura”?


Credo di aver già risposto, in parte. Voglio soltanto precisare, a scanso di equivoci, a cosa intendo riferirmi con la parola cura: nozione di cui si sta abusando. Se ne privilegia esclusivamente il volto accudente, protettivo, materno, emozionale. Cura, per Heidegger (il primo a introdurre la nozione: Sorge) equivaleva a prendere consapevolezza del proprio Dasein e del nostro Mit- dasein: del nostro stare nel mondo da soli e con gli altri. Per Jaspers, la cura equivaleva ad intraprendere una vocazione filosofica che potesse aprirci a nuovi orizzonti di senso. Per l’ultimo Foucault, che riscopre i classici greci e neo-cristiani, la cura equivaleva al “dominio di sé”, all’esercizio della padronanza morale, conditio sine qua non, e qualità etica auto-educata, che rendeva possibile l’esercizio della politica…Gli studi successivi di Pierre Hadot confermano tale interpretazione corretta. La psicologizzazione della cura ne ha privilegiato le prassi consolatorie e consolanti, a volte mielose e sempre accomodanti. Ha espulso da esse la dimensione valoriale, sempre più importante in educazione. Una cura senza principi, soltanto ripiegata sull’amore di sé o degli altri, è una pericolosa concessione a chi ci manipola, ci vorrebbe ricacciare nel privato promettendoci la felicità. Ad Anghiari e altrove, la cura della parola e dello scrivere, si esercita affidandosi a quest’ultima in quanto cura esistenziale più paterna che materna, se proprio si vuole ricorrere a tali facili similitudini. Scrittura e parola svolgono una funzione to care efficace, se quindi aiutiamo a parlare e a scrivere le persone con maggiore precisione proprietà. In caso contrario, entrambe queste cruciali modalità di auto-aiuto e aiuto reciproco, divengono un discorrere pur importante ma privo di senso sia filosofico che educativo. Scrivere, ricordare, problematizzandosi: questa è la vera cura. L’autobiografia è una “scrittura della realtà”, un tentativo di riscoprire verità celate sotto le apparenze. Scrivere quindi per imparare a denunciare, a ribellarsi, ad indignarsi. Scrivere non solo per sé, per tutti coloro che non lo possono fare, le cui storie vanno salvate e fatte conoscere al mondo.


So che lei dà una particolare attenzione alla stesura del diario personale e al suo valore di testimone di esperienza vissuta. A quale età è bene spingere i bambini ad iniziarne la stesura?



In merito alla filosofia con i bambini e le bambine, vanno salutate con grande interesse queste attività precoci. Educarli a riconoscere dentro e fuori di sé i problemi personali e del mondo, prima citati, li inizia ad un pensiero filosofico che non li abbandonerà e li sosterrà oltre quei primi anni. Credo che, come accade per gli adulti, si tratti di portarli a riflettere su parole e temi da “grandi”, che appunto gli adulti amano eludere, ma non i bambini o i ragazzi: chi sono io, che cosa è visibile o viceversa invisibile, che cosa la solitudine, il bene, il male, la paura o la vita interiore, ecc. Attribuisco molta importanza a quest’ultima evocazione. Nella scuola primaria, molte sono le iniziative che già promuovono e valorizzano tali pratiche; se esercitano i bambini a rielaborare razionalmente gli apprendimenti, a riflettere sulle proprie emozioni, ad acquisire la capacità di restituire ad altri ciò di cui siano stati i diretti protagonisti. Ritengo che, a questi fini, esse dovrebbero costituire una costante irrinunciabile, nel progredire degli anni scolastici, nell’insistere su argomenti e prassi pedagogiche e didattiche “interiorizzanti”, più in grado di altri di suscitare le attenzioni richiamate. Ad esempio, inerenti lo sviluppo delle capacità di rievocare e ricordare, delle abilità cognitive a ragionare su se stessi, sui propri comportamenti e atteggiamenti: successi e sbagli compresi. Occorre indurre propensioni al monologo interiore, a rivolgersi ad un tu immaginario che entra in dialogo con noi stessi. E, inoltre, sono utilissimi quei momenti in cui bambine e bambini possano raccontarsi al presente con il diario personale (e segreto), perciò vietato alla lettura di insegnanti e genitori: a meno che non siano loro a desiderare di divulgarlo; o, al passato, redigendo periodicamente sintesi della loro storia e, ancora, imparando l’uso di block-notes di osservazione e commento di tutto quanto accade. In tal caso, l’obiettivo concerne lo sviluppo di comportamenti capaci di diventare vere passioni e vocazioni autobiografiche che, contemporaneamente, attivano il piacere di scrivere eventi, emozioni, impressioni man mano che questi accadono, di leggere, di raccogliere, di analizzare le storie degli altri. Imparando ad intuire, a decifrare, a rispettare gli indizi delle loro vite interiori. Ancora una volta, è il ruolo di guida degli adulti ad essere determinante: quando siano capaci di sollecitare l’uso di metafore e di analogie rispetto al loro pensare; quando gli educatori si mostrino premurosi verso scritture e letture che vadano oltre la cronaca, il piatto resoconto o le cronologie domestiche; quando, insomma, costoro siano convinti (interrogandosi, da adulti, sulla loro vita interiore) che l’auto-narrazione non è soltanto (come i media ci propongono) un’ attività esibizionistica, ma l’espressione di un’intelligenza e di una sensibilità allo stato nascente, che nella vita potrà contare più di molte altre. Affinché l’educazione interiore, da esclusiva vocazione confessionale possa divenire la costante attività invisibile, individuale e civile, di chi a scuola e in famiglia abbia trovato adulti capaci di apprezzarla e di stimolarla. Insomma, una precoce abitudine alla interiorizzazione può accendere e far crescere attitudini filosofiche, artistiche, letterarie. Aiuta ad imparare ad affrontare la vita futura, a star bene da soli, ad apprezzare il silenzio e il piacere della meditazione.


Quale sarà la prossima iniziativa ad Anghiari? A quando il prossimo Festival?


La Libera Università è in attività tutto l’anno, consultando www.lua.it si possono trovare le news settimanali; consultando i nostri programmi mensili si scoprirà che le iniziative formative più importanti (la scuola, i corsi avanzati e di perfezionamento), si affiancano a quelle uniche (i seminari, i laboratori…) e inoltre alle proposte scientifiche: gruppi di studio permanenti nazionali, convegni e simposi. Ormai la Libera conta 1500 e più associati, oltre trenta collaboratori scientifici dislocati in ogni regione che sono i “fedelissimi” dell’associazione non profit: tutto lavoro di volontariato culturale e scientifico. Infatti viviamo senza contributi pubblici e privati ma soltanto grazie alle quote associative e di iscrizione alle attività.

A settembre, nei primi giorni del mese, terremo il nostro consueto appuntamento nazionale di dibattito, ricerca, confronto, ascolto di ospiti illustri, denominato da tre anni “I Cantieri della Libera”. Chiunque è invitato a vedere dal vivo che cosa pensiamo, quali esperienze stiamo portando avanti, quali nuove prospettive stiamo inventando. Le attività del 2010 prevedono, oltre alla nascita di una nuova scuola di “Giornalismo biografico e delle memorie territoriali”, la costituzione di una rete tra piccoli comuni disponibili a gemellarsi con Anghiari per realizzare nei loro ambienti iniziative analoghe alla nostra. Poiché l’autobiografia è un bene dell’Umanità, anche se fino ad oggi l’Unesco non l’ha dichiarato tale, si tratta di superare ogni logica particolaristica, ogni meschina salvaguardia dei propri orti. Ciò che oggi deve vederci uniti contro la “fine della memoria” nella società contemporanea, contro l’abuso del narrare e del narrasi soltanto per autocompiacimento e contro la perdita del rigore nello scrivere di noi e degli altri, merita quindi orizzonti e azioni di resistenza di ben altro respiro.


Grazie della passione con cui ha risposto alle mie domande e se non fossi già d'accordo con il suo lavoro direi che....mi ha convinta. Spero di ri-incontrarla presto ad Anghiari.


Ne sono ben felice!


M.G.F.



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L'accento di Socrate