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Incontro con Massimo Squillacciotti docente di Antropologia cognitiva

all'Università di Siena. La sua è l'unica cattedra italiana ad insegnare

questa importante disciplina.



D. Che cosa studia l’Antropologia culturale?

R. L'Antropologia culturale è un grande campo al cui interno esistono delle diverse Antropologie più specifiche. Il mio passare ad insegnare da culturale a cognitiva segna proprio il fatto che è nato un nuovo campo più specifico che si occupa dei processi di socializzazione e di apprendimento della cultura. L'Antropologia studia le distanze culturali. In genere in patria lavoriamo sulle differenze all'interno di una cultura oppure sulle culture presenti

D. Voi siete l'unico polo universitario che si occupa di Antropologia culturale?

R. Come disciplina l'unica è quella che insegno io a Siena, successivamente ho cambiato il nome in Antropologia Cognitiva. Poi ci sono altri interessi ma più di carattere filosofico, ancora stanno discutendo quanta natura c'è nella cultura o viceversa

D. Quali sono gli assiomi dell'Antropologia cognitiva?

R. Sono l'unicità della specie umana, le differenze sono di cultura. Detto questo vuol dire che se io dico 2 e 2 fa 4 oppure 2 e 2 - 22, dipenderà dai contesti culturali e dalla funzione comunicativa di questa frase. Se io faccio matematica 2 e 2 fa 4 e questo vale anche per il somalo del villaggio, mentre il bambino sa per tradizione che si può dire 2 e 2 - 22 nel parlare quotidiano perché sa che vuol dire che siamo insieme e facciamo un gruppo, è un parlare metaforico

D. C'è quindi una differenza sostanziale

R. Che è quella sulle forme del ragionamento. Che succede in occidente, nel mediterraneo bianco? Logica, ragionamento, ragione, astrattezza sono abbastanza sinonimi, mentre le varie forme di ragionamento possono essere diverse per le diverse funzioni comunicative; quindi io individuo una logica dell'organizzazione dei dati in una società diversa dalla mia che fa un ragionamento diverso, ma non è che non sa che poi esiste l'astrattezza, la logica formale. Una posizione del genere è antirelativista, è antiassolutista

D. E' una posizione filosofica, nel senso che un filosofo dovrebbe avere questa posizione intesa come struttura mentale, cosa ne pensi?

R. E certo! Devi andare a vedere caso per caso quali sono le funzioni, le relazioni, le dinamiche di queste costruzioni. La logica espressiva è sempre una logica di connessioni di parti e che può essere simbolica, concreta, può essere metaforizzata

D. Puoi fare un altro esempio sulla matematica?

R. Io ho lavorato per anni con gli Indiani Kuna di Panama. Quando sono andato a studiare la matematica, i loro sistemi di matematica, mi sono accorto che la caratteristica di questo sistema non è a base 10 ma a base 8, ma questo non è un problema matematico. Insieme al nome del numero ci si mette una parte del discorso che indica la forma dell'oggetto per cui 2 banane e 2 cocchi non si sommano, fanno 2 banane e due cocchi perché sono di forme diverse. Ciò non implica che il numero sia concreto. Il paradosso è stato che un'antropologa di Panama li aveva convinti che il loro sistema di numerazione è concreto, mentre un sistema di numerazione non può essere concreto perché altrimenti non conta nulla. Vale a dire se c'è l'infinito, c'è la base del numero, c'è il concetto di + 1, questi sono i criteri della matematica di Pitagora, dei Kuna e così via. Poi il vestito per cui per noi 3 è Dio, è la Divina Commedia...sono vestiti, simboli, che stanno dicendo altre cose. Studiare il sistema di numerazione voleva dire anche andare a riaffermare che non esistono menti diverse, la mente ed il pensiero non sono diversi, la maniera di organizzare la cose mi fa diverso come prodotto. Questa è una posizione radicale

D. La nostra rivista si pone l’obiettivo di dimostrare che si può “Vivere con filosofia”, cercare cioè nella filosofia degli spunti di riflessione personale per vivere meglio, dai tuoi studi pensi che ciò sia possibile?

R. Secondo me in assoluto la filosofia può aiutare se crea coscienza critica, cioè consapevolezza del patrimonio che abbiamo ereditato, di modi di pensare anche, e su questo abbiamo una riflessione personale ed anche collettiva. Pensa a quando siamo cucciolo di uomo e siamo in un gruppo: siamo parlati prima di parlare, noi capiamo che gli adulti ci stanno parlando in un certo modo e quindi noi rispondiamo in sintonia con questo, noi diventiamo intelligenti in quel momento. Il significato delle parole, il peso delle parole e la loro storia, sono uno dei campi della filosofia. Il suo compito è spiegare l'uomo

D. E quindi ci può aiutare in questo senso perché ha questo patrimonio millenario di esperienza in cui noi possiamo trovare risposte alle nostre domande collettive, poi quelle individuali sono una cosa più privata

R. Non a caso anche in filosofia si dice che questa è una trasformazione epocale, antropologica. Segna una novità. Pensa alle parole del '900 che ci siamo portati appresso come: “che epistemologia siamo facendo adesso?” Cosa insegniamo ai ragazzini solo il multimediale o anche il coordinamento mano-occhio nello scrivere? Questo è frutto di migliaia di anni di filosofia

D. Non tutti la pensano come te, sono convinta che tutto venga dalla filosofia. Pensiamo alla Medicina che da lì poi si è evoluta

R. Certo! Tutti modi che l'uomo ha per tirar fuori quello che ha dentro vengono da lì. Di condividerle con gli altri o di osservare ciò che sta intorno e dire “a me dice questo”

D. In questo numero del nostro laboratorio parliamo di arte e immagini, quale suggerimenti puoi darci per educare i giovani all’immagine? Considerando il bombardamento a cui sono sottoposti

R. Qui siamo al confine di tante scienze. Nell'insegnare a smontare le immagini, dobbiamo insegnare con le immagini a costruire altre immagini. Nel mondo di tante immagini, impossessarsene vuol dire poterle costruire, ricostruire, smontare, in qualche modo imparare la grammatica delle immagini. Allora questa operazione serve, ed è questa la parte antropologica-filosofica, a decolonizzare le immagini

D. Come si può procedere in concreto?

R. Rendersi conto che esistono dei prodotti di immagini che stanno producendo la realtà non rappresentandola. L'11 settembre in televisione ha prodotto una realtà diversa dall'11 settembre vissuto e noi abbiamo visto quella. C'è uno scarto tra la realtà e la sua rappresentazione. La decolonizzazione vuol dire “ma che immagini mi stanno proponendo?” Devo ragionare sulla tecnica di queste immagini, su come sono state costruite e perché

D. Quindi ragionare sul perché si arriva ad un certo tipo di immagine. La pubblicità ad esempio ci offre una grande possibilità di fare questo lavoro. Puoi fare un altro esempio?

R. Pensiamo quando in un telegiornale ci appare sotto “immagini di repertorio”, secondo me è una scorrettezza etica paurosa. Preferisco un'immagine fissa

D. O una fotografia

R. Brava, una fotografia e sento la voce dell'intervistato. L'etica delle immagini passa non solo ad impedire l'espropriazione delle coscienze, ma anche dalla forma delle immagini che è ambigua come le immagini di repertorio. Allora, forse, bisognerebbe imparare a fare il giornale della classe

D. Mi viene in mente un esperimento fatto ai tempi delle superiori, ognuno di noi portava a scuola un quotidiano diverso e si riportavano le notizie a seconda del taglio politico

R. Questo era un lavoro parecchio innovativo perché ti riappropriavi della parola o ti insegnavano a mettere in relazione parole ed emittenti tra di loro. Questo sull'immagine ha maggior ragione. Pensiamo all'ossessione di andare vedere Van Gogh e chiedersi cosa voleva dire, mentre bisognerebbe chiedersi “Cosa dice a te?” Sei tu che lo vai a vedere

D. Poi è molto soggettivo quello che ci dice, parla a noi e al nostro vissuto

R. Oggi ci trovo questo, domani trovo altro. È ciò che in termini cognitivi si chiama trasferimento. Come quando spiegavo i proverbi ai Kuna, se dico loro “tanto va la gatta al largo e i cocci sono suoi” a loro va benissimo perché capiscono la logica di opposizione tra un prima e un dopo. Questo è ciò a cui dovrebbe portare l'educazione all'immagine

D. Dall'immagine è naturale giungere al cinema e ti chiedo se si può attribuire un valore terapeutico al cinema?

R. Sì, assolutamente. È chiaro dipende dal genere di film, pensiamo al film Ventun grammi del regista messicano Alejandro Gonzàlez Iñàrrìtu. Ti prende costantemente da destra e da sinistra e ti destabilizza; ti libera dai condizionamenti. Poi ognuno può avere i suoi

D. Poi ci sono film che non smetti mai di guardare perché c'è sempre qualcosa da scoprire che rimanda a noi

R. Nella mia vita di intellettuale e di padre, la trilogia di Wenders mi ha fatto capire quale doveva essere la mia posizione nei confronti del rapporto con i miei primi due figli. Dico sempre agli studenti di prendere i film di Wenders in videoteca, portarli in classe e guardarli insieme.


Maria Giovanna Farina




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L'accento di Socrate