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Per un’ermeneutica dello stare insieme




Il libro di Ruggero D’Alessandro e Francesco Giacomantonio, Post-strutturalismo e politica. Foucault, Deleuze, Derrida (Morlacchi, 2015, 113 pp.) è un utile strumento sia per lo studente che per lo studioso, sia per chi si avvicina per la prima volta ai temi del post-strutturalismo, necessitando quindi di una mappa concettuale al riguardo, sia per chi ha già confidenza con tali tematiche e può trovare nel libro un agile strumento di ricapitolazione.

Il lavoro è strutturato in tre capitoli, rispettivamente dedicati ai tre “campioni” filosofici di questo movimento di pensiero: Michel Foucault (capitolo scritto dai due autori a quattro mani), Gilles Deleuze (capitolo scritto da D’Alessandro) e Jacques Derrida (quest’ultimo, iniziatore del decostruzionismo; scritto da Giacomantonio).

Una pubblicazione del genere si fa apprezzare non solo per quanto detto in apertura, ma per il preciso momento in cui cade.

Infatti, come non vedere nei discorsi di Foucault su potere, sapere e soggettivazione un possibile antidoto al pensiero unico? «In definitiva, gli studi foucaultiani ci hanno, prima di tutto, mostrato che la modernità ha determinato una dimensione fortemente sistemica, in cui esiste esclusivamente un soggetto fondato sulla conoscenza, che si contrappone al soggetto del mondo greco-romano, fondato, invece, sulla cura di sé (…) Ma bisogna fare attenzione ai processi attraverso cui questa soggettività viene a costituirsi, poiché tali processi possono (…) determinare una soggettività assoggettata, ossia non libera» (pp. 42-43). Mancanza di libertà che oggi nella parte più avanzata del mondo occidentale, più e oltre che in chiave politica, si manifesta in ambito epistemologico: dall’oggettività scientifica (con gli sviluppi prefigurati dallo stesso Foucault a proposito del potere autoritario con funzione normalizzatrice della medicina, che oggi fonde il versante biologico con quello psichiatrico, nella dimensione neuro-; discorso già anticipato, in altri termini, dalla critica heideggeriana alla miopia delle scienze naturali, fisica in primis) a quella neorealista, ben rappresentata dall’opinione comune secondo cui la scienza si occupa di realtà (fatti) e la filosofia e la religione di verità (interpretazioni) – come se la realtà non dipendesse da una certa idea di verità e, trascurando questo passaggio, cadendo nella posizione contraria a quella che si vorrebbe sostenere, diventando infatti così asseribile che ciò di cui si occupa la scienza può tranquillamente essere falso, e non fino a prova contraria, ma in sé.

Ed ancora, come non vedere nella rizomaticità di Deleuze un’apertura di senso, diversa da quella scientifica e da quella comune, del concetto di desiderio e di coscienza? Diversità emblematicamente rappresentata dalle differenze di significato da lui poste in coppie di termini che si fronteggiano, come causalità (storia) e avvenimenti (divenire), o molare e molecolare, «mentre il molare si concretizza in segmenti, codificazioni (lo stato, la classe) che animano la macropolitica, il molecolare è fatto di flussi, decodificazioni che smontano gli elementi molari costituendo la micropolitica» (p. 72). Tendendo così verso un’idea di coscienza alternativa a quella del considerarla l’esito d processi storici e/o biologici e/o neurologici, e vedendola invece proprio come quel qualcosa che sempre può far esplodere quei meccanismi, mettendo al mondo l’imprevisto – che subito quei processi si preoccupano di ricondurre a loro stessi.

E come non vedere nell’analisi decostruttiva dell’intima contraddizione della democrazia e nella tensione al cosmopolitismo di Derrida una via di superamento delle autoreferenziali prospettive nazionaliste e degli altrettanto autoreferenziali discorsi sulla sovranità, mirati a sancirne il possesso da parte del parlante, piuttosto che ad elaborarne una concezione che possa rappresentare un progresso? «Il paradosso consiste nell’incompatibilità tra universalità e sovranità. (…) Infatti, il principio della sovranità è un fantasma di onnipotenza che si erge al di sopra di tutto, un fantasma di autodeterminazione di sé, dai tratti ipsocentrici e fallogocentrici (…) che non tollera alcuna limitazione esterna (pertanto) la radice della democrazia (a venire) andrebbe individuata in “un’alterità senza gerarchia”, ossia richiederebbe una forma di uguaglianza che si sottrae “allo schema fallogocentrico della fraternità” (…) tipico della società occidentale (…) che si fonda sul razionalismo, sulla preminenza dell’elemento maschile, del legame di familiarità e di fratellanza, dell’autoctonia, della nascita e della nazione. Senza questa forma di uguaglianza (…) il cosmopolitismo, la democrazia universale, la pace perpetua (…) non avrebbero alcuna possibilità di annunciarsi e di realizzarsi» (pp. 90 e 85-86). Sconfortante il confronto con quelle prospettive e quei discorsi politici di oggi (che sembrano oscillare tra la limitatezza argomentativa e l’essere interessati e strumentali) che vogliono disegnare un mondo sempre più chiuso e quindi sempre più povero. Ma anche per chi è refrattario alla teoresi, l’attualità ci mostra proprio in questi giorni il loro esito (più che prevedibile), nella questione della crisi dei migranti: muri di filo spinato e polizie schierate contro chi è in cerca di una vita vivibile, che qualcun altro ha però deciso essere già di suo esclusivo possesso – si palesa così il fatto che l’autentica crisi cui ci troviamo di fronte, è quella del rapporto con l’alterità.

E per abituarsi a vedere nella diversità un valore, per abituarsi a leggere diversamente testi e persone, la via è quella di un costante esercizio ermeneutico.


Federico Sollazzo, docente di Moral Philosophy presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Szeged


(Dicembre 2015 - Tutti i diritti riservati©)


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