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Dell’esistere


dal punto di vista cattolico l’anima più degna è quella che sa far meglio i suoi conti.

A. Gide


Cosa accomuna in senso forte, oltre la lingua, André Gide (1869 – 1951), Jean-Paul Sartre (1905 – 1980) e Albert Camus (1913 – 1960)? Stefano Scrima nel suo Esistere forte. Ha senso esistere? Camus, Sartre e Gide dicono che… (Giardino dei Pensieri, Bologna, ed. cartacea 2013, pp. 150, ed. ebook 2014, pp. 131) lo dichiara subito, nell’Introduzione: «Tutti e tre questi autori, nonostante il loro personale riconoscimento di una sostanziale assurdità della vita, propongono, attraverso le loro opere (romanzi e non), un senso che renda degno il loro – il nostro – tempo d’esser vissuto, e amato (…) “la vita è assurda” – può essere – ma ciò non significa che non possiamo essere noi stessi a darle un senso» (20014: 16 e 14). Personalmente concordo e rilancio: questi autori, ciascuno con le proprie specificità, condividono al tempo stesso la critica verso un certo modo d’esistenza e l’apertura verso una possibile alterità. La critica, è quella verso l’(/il principio di) autorità, di qualsivoglia genere. L’apertura, è quella verso una significazione della vita che non derivi da altri che da se stessi. Certamente questi temi ricorrono, variamente declinati, in larga parte dell’intelligentia dal secolo scorso e si estendono dalla critica del potere – sostanzialmente, lo Stato – a quella del sapere – sia la religione, sia, e oggi soprattutto, la scienza e la tecnica e il loro contenuto, nient’affatto neutrale, epistemologico e quindi sociale –, ma in questi autori li troviamo con una peculiare e comune caratterizzazione: emancipazione dall’autorità; lotta contro il (sedicente) nichilismo che ne deriva; responsabilità e piacere di una (ri)costruzione autonoma dell’esistenza; apertura, direi empatica, al mondo al fine di calibrare quell’autonomia su una relazione/comprensione emozionale con quanti e quanto ci circonda, «il problema sta proprio lì, in quella traiettoria emancipativa percorsa dall’uomo moderno, la quale avrebbe ingiustamente e pericolosamente soffocato il legame originario col non-io, con la natura, gli oggetti, insomma col mondo, tutto quello che non siamo noi, anzi no, perché il mondo siamo anche noi. È la separazione uomo/mondo il problema» (2014: 16). Un atteggiamento certamente influenzato da un comune milieu culturale di chiara derivazione illuministica (posizione che al giorno d’oggi, se percorsa fino in fondo, dovrebbe condurre ad un superamento della codificazione acquisita dei valori dell’illuminismo storico in direzione di una loro ridefinizione e riallocazione che sia in grado di afferrare il mondo corrente: l’ipostatizzazione di un valore, che lo trasforma in un’autorità sotto forma di una cantilena, è un qualcosa di massimamente anti-illuministico; come già avevano colto Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo – ma questo ora ci porterebbe su un’altra strada). Ecco insomma, in maniera un po’ più diffusa, cosa accomuna questi tre nomi, giustificandone l’accostamento.

Il libro è suddiviso in quattro capitoli, uno dedicato a ciascun autore ed uno conclusivo comparativo, ed ha un’impronta propedeutica, senza per questo scadere nel banale. Certo, un dazio alla semplificazione viene fatalmente pagato. Ad esempio: non è affrontata la questione del comportamento di Sartre sotto il nazismo nella Parigi occupata e il duro confronto che ne derivò con Louis-Ferdinand Céline (a proposito del quale mio permetto di suggerire il breve ma incisivo articolo di Maurizio Montanari Il falso censore e il reprobo collaborazionista http://liberaparola.eu/clinico-contemporaneo/212-il-falso-censore-e-il-reprobo-collaborazionista); né è trattata la querelle fra il direttore de «Les Temps Modernes» e Camus, che negli anni Cinquanta animò le pagine della famosa rivista e che portò alla rottura sia intellettuale che amicale fra i due (sulla rivista francese, celebre è la lettera di risposta di Camus alla severa recensione a L’uomo in rivolta pubblicata a firma di Francis Jeanson, in cui lo scrittore franco-algerino, riconoscendone la mano, si rivolge direttamente a Sartre, aprendo la lettera stessa con un Monsieur le Directeur); non sono sviscerati i motivi della critica camusiana allo storicismo hegeliano, e quindi a Marx; non si tocca la presa di distanza di Martin Heidegger dall’esistenzialismo, da quello sartriano in particolare accusato di essere “esistentivo” anziché “esistenziale”, con la sua Lettera sull’umanismo, risposta al testo sartriano L’esistenzialismo è un umanismo – puntuali sono invece i riferimenti alle tematiche dostoevkijane rintracciabili negli autori in questione (per un’introduzione al parallelismo Dostoevskij-Camus, mi permetto di segnalare l’articolo di Alessandro Palladino Verità e mondo in Dostoevkij, a partire dall’interpretazione di Camus http://costruttiva-mente.blogspot.com/2013/08/verita-e-mondo-in-dostoevskij-partire.html). Ma si badi che i suddetti rilievi non vogliono affatto scoraggiare dalla lettura del volume, bensì accennare a possibili diramazioni che si articolano a partire dallo stesso e che meritano di essere percorse, magari in una prossima pubblicazione dello stesso autore.

L’ultimo capitolo offre una comparazione fra i tre autori in esame, con l’aggiunta dell’evidenziazione di interessanti intersezioni degli stessi con Friedrich Nietzsche e Michel Foucault – ad es.: «La lettura gidiana di Nietzsche, naïf e poco approfondita, risulta il perfetto viatico per l’abluzione dalla morale tradizionale, sia in termini esperienziali che letterari. Se Sartre si ritrovò al cospetto d’un Nietzsche rielaborato e ormai confezionato dalla critica, che pretese di conoscerlo fino in fondo, Gide ebbe la “fortunata” possibilità di crearsi un Nietzsche personale, epurato da molti dei suoi aspetti (che poi diventarono) caratteristici per esser esaltato come il filosofo dell’”energia creatrice”», o ancora: «Alcuni sostengono che Sartre non “elaborò” mai un suo Nietzsche a causa d’una sorta di complesso d’inferiorità che lo paralizzava di fronte ai contemporanei più esperti in materia (ad esempio Bataille)» (2014: 101 e 104). Ancora una volta il tono è propedeutico, ma ciò appare come una cosciente scelta dell’autore, animato, oltre forse dal voler rendere le proprie passioni facilmente comunicabili al e quindi facilmente condivisibili col lettore, dal voler fare emergere l’essenziale di ciascuno dei tre autori e per tal via le loro analogie. Certo, così facendo rimane in ombra l’altra metà del cielo: le loro reciproche differenze. Ma in questa sede ciò che sembra interessare Scrima è sottolinearne le somiglianze poiché in esse si trova un approccio al mondo che potrebbe rendere lo stesso più abitabile per via di un’esistenza più consapevole e in virtù di ciò più piacevole (e se chi scrive ha ben colto questo proposito, ne condivide lo spirito).

Tornando all’inizio per concludere, ciò che accomuna i tre intellettuali è dunque un rifiuto dell’autorità così radicale da estendersi a qualsiasi possibile autorità, a qualsiasi sostantivo scritto con la maiuscola, anche a quello di Uomo.

Si apre qui un bel parallelismo con l’idea arendtiana che la Terra non sia abitata dall’uomo ma dagli uomini, concreta pluralità irriducibile ad una singolarità teoretica, e forse anche con il nucleo del pensiero debole, se «(…) aver ragione significa che c’è qualcuno che non c’è l’ha, che vive nella menzogna. Non è così: è molto più plausibile che tutti abbiano ragione, o perlomeno che tutti abbiano le proprie ragioni» (2014: 118). Quel che resta dell’opera dei nostri tre autori e si dipana oltre la stessa, è allora una reticenza di fronte a qualsiasi potere – sia esso religioso, politico, economico, tecno-scientifico (l’uomo come il calcolabile), teoretico (l’uomo come ciò che risponde ad una definizione esatta) – che in quanto tale definisce e norma e così facendo riduce sempre più il margine d’autonomia della/nella condizione umana.

Se dunque, pagando il dazio allo spirito dei tempi in cui viviamo, volessimo esercitarci nell’elaborazione di una formula, potremmo allora forse concludere dicendo che l’esistenza è tutto ciò che avanza dalla sua definizione.


Mare, campagna, silenzio, profumi di questa terra, mi riempivo di una vita odorosa e mordevo nel frutto già dorato del mondo, turbato di sentire il suo succo dolce e forte colare lungo le mie labbra. No, non ero io che contavo, né il mondo, ma soltanto l’accordo e il silenzio che fra il mondo e me faceva nascere l’amore.

A. Camus


Federico Sollazzo, docente di Moral Philosophy presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Szeged

ideatore e curatore di  CriticaMente


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L'accento di Socrate