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Saggio: prova onto-psicologica dell’inesistenza di Dio.

Non esiste cosa del genere di Dio.


Premessa


In questo testo utilizzo il termine prova alla stregua di argomentazione e le parole inesistenza (non esistenza) ed esistenza ricordando la puntualizzazione di Quine (1948). Egli sostenne il non senso nell’affermare “entità inesistenti” e il recente dibattito sugli “impossibilia” le cose che non esistono. Intendo inoltre sospendere il giudizio sulle posizioni del positivismo logico, per altro già affrontate (superate?) criticamente da oramai molto tempo, che sostengono in definitiva l’inutilità di soffermarsi su entità solo ipotizzate e non sottoponibili all’esperienza, come si configura appunto la questione Dio, che infatti non ha alcun significato (riferimento esperibile). Da cui l’eventuale insensatezza di parlare intorno alla non esistenza divina. Adotto il medesimo atteggiamento sospensivo verso la concezione espressa dall’ultima asserzione di Wittgenstein nel Tractatus, secondo la quale si dovrebbe tacere su ciò di cui non si può parlare, cioè a dire l’etica, i problemi riguardanti Dio, la salvezza, la creazione, questioni che appunto ci riguardano direttamente al momento, sebbene egli si riferisse anche all’impossibilità da parte del linguaggio di parlare della sua stessa logica, della sua sintassi della propria semantica. Con tutto il rispetto verso il grande filosofo viennese (“si parva licet componere magnis”), qui parleremo proprio di Dio, seppure per comprovarne l’inesistenza, cioè a dire, in definitiva, per avvalorarne l’inattendibilità e l’inutilità concettuale, nonché negarne l’ipotizzata posizione esistenziale. Ritornando proprio sul fatto che la pratica del silenzio diviene, in fin dei conti, quella che maggiormente si confà all’argomento in questione. È utile inoltre, per fugare eventuali perplessità o facili obiezioni, accennare brevemente ai contributi che le neuroscienze hanno dato riguardo la “negazione linguistica”, nonché alle argomentazioni di Kant sull’esistenza di Dio espresse nella “Critica della ragion pura” e specialmente in “Critica della ragion pratica”. Entrambi questi domini sono utili per inquadrare meglio (contestualizzare) il mio argomento onto-psicologico.

Cominciamo con i contributi delle neuroscienze.

Quando si formula una negazione che riguarda un’azione muscolare, uno stato di cose, un ente, questa operazione non è una semplice modalità sintattica senza complesse ripercussioni cognitive e neuro anatomiche. Specie nelle frasi che negano un’azione motoria sembra si realizzi una preventiva e transitoria simulazione del medesimo stato fattuale negato che viene velocemente eliminato per dar luogo poi ad una rappresentazione finale meglio consolidata (Kaupb, Ludtke e Zwaan, 2005). Pronunciare (o pensare) una negazione di un verbo motorio (non alzare un braccio), attraverso articolate connessioni neuronali, causa una riduzione iniziale dell’attivazione stessa del sistema motorio di riferimento, forse per dar modo al Sistema Nervoso Centrale di elaborare il significato delle stesse frasi motorie. Come se il cervello lasciasse spazio ai processi della comprensione per poi avviare eventualmente l’azione espressa (non muovendo il braccio che in precedenza oscillava). È più agevole studiare questi meccanismi quando gli esperimenti vengono fatti su un repertorio di quesiti o comandi riguardanti il movimento, ma si suppone che qualcosa di analogo accada anche se l’ambito di indagine è astratto. Il pensiero di Kant riuscì a smontare i precedenti argomenti a sostegno dell’esistenza di Dio, confutando le prove fisico-teologiche, le prove cosmologiche e quelle ontologiche. Dopo di lui sembra ormai inutile cimentarsi in questo settore del discorso filosofico e teologico. È assodato,forse per sempre, che sia decaduta la possibilità di fornire prove razionali dell’esistenza di entità divine. Gli argomenti razionali che aspirino a dimostrare la presenza di Dio, sono infatti, per il filosofo di Konigsberg, inconsistenti, diversamente da quelli “pratici”. Nel presente contesto proprio questi ultimi assumono una qualche rilevanza. In breve, la ragione percepisce quella che egli chiama ”antinomia della ragion pratica”: il Sommo bene, unione di virtù e felicità, è impossibile da realizzare in questa vita, com’è evidente dai fatti. Chi è vizioso spesso consegue ciò che s’era prefissato, ottenendo in molti casi addirittura la felicità. Al contrario l’individuo virtuoso è in grado di mantenere questo stato soltanto attraverso sacrifici e rinunce che a lungo andare lo rendono infelice. Tutto questo appare alla ragione come una contraddizione, cosicché essa può acquietarsi solo “postulando”, cioè ricercando quelle condizioni necessarie che paiono essere in grado di risolvere l’antinomia stessa. Il primo “postulato”, afferma Kant, è l’esistenza di Dio che realizzerà in un’altra vita la perfetta corrispondenza tra virtù e felicita, nonché tra vizio e punizione. Unione che è sentita (desiderata) come indispensabile e in base alla quale viene assegnato anche un senso all’esistenza umana. L’immortalità dell’anima è il secondo postulato. In questa vita non è possibile raggiungere la perfezione morale e tuttavia questa esigenza, questa tendenza (desiderio), è avvertita da tutti coloro che si pongono sulla via della virtù. In altre parole è sentita la necessità nella vita pratica (moralità) di intraprendere il cammino per arrivare allo stato di perfezione senza rinunciarvi, seppure questo intendimento non può avere esiti positivi conclusivi in ragione dei limiti temporali della vita umana. Kant è convinto che la realtà dell’uomo virtuoso si ponga in questi termini e pertanto presuppone, legittima, reputandola necessaria, una vita spirituale senza termine, infinita, siccome infinita è la strada che conduce alla perfezione. Viene, cioè, assegnata all’anima una costitutività immortale. Assumendo tale condizione sarà in grado di raggiungere Dio stesso, altrimenti il divario uomo-Dio non potrebbe essere mai colmato. Kant aveva dichiarato l’impossibilità di giungere, con la ragione teoretica, a dimostrare l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, ma nella “Critica della ragion pratica” (1788), egli prende in considerazione le esigenze della moralità, quindi, dicendolo diversamente, elementi sostanzialmente di tipo psicologico (volontà, motivazioni, decisioni, desideri, ecc.). Sulla base della libertà umana, anch’essa valutata come esigenza strutturale, dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, il filosofo tedesco introduce due “postulati” (dati per veri, esistenti e in azione) in base a urgenze, desideri o addirittura bisogni, scaturiti dall’animo (mente) umano, nel tentativo di sedare (razionalizzare) il grande malessere derivato dalla constatazione del Male e dell’Ingiustizia consustanziali all’esistenza terrena. In virtù di queste riflessioni Kant giunge all’essenza noumenica dell’uomo (laddove nella “Critica della ragion pura” aveva indagato quella fenomenica) rappresentata proprio dalla legge morale, in sostanza dall’imperativo categorico. Avvertire quest’ultima dentro se stesso e vedere il cielo stellato sopra di lui rendevano la sua mente colma di ammirazione e reverenza divini senza pari. Nella seconda Critica, Kant, introduce perciò il postulato, una proposizione ritenuta vera nonostante sia priva di evidenza e tuttavia considerata necessaria per fondare l’argomento che vuol dimostrare. Si avvale, inoltre, nel perseguire i suoi intenti, lo ripetiamo, di indubbie componenti psicologiche poste “a priori” rispetto alla ragione. Kant aveva sostenuto nella prima Critica l’infondatezza di ogni argomento razionale teso alla dimostrazione della divinità, ma tenta successivamente di riaffermare l’esistenza di Dio appellandosi fortemente al fatto che questi deve per forza di cose esistere, essere buono e giusto, al fine di dar ragione alle contraddizioni e ai mali dell’esistenza. Detto in altri termini, Dio (e l’immortalità dell’anima) diviene un’esigenza, un desiderio forte, anzi lo vuole certo, perché solo la sua presenza può giustificare e rispondere ai gravi quesiti posti dall’uomo, specie quelli che sono in più stretta relazione con l’ambito morale e il senso stesso della vita cosciente. Interrogativi che altrimenti rimarrebbero inesorabilmente senza soluzione, sarebbero, in altri termini, privi di alcuna accettabile giustificazione (teodicea). Tuttavia questo tentativo utilizza il ragionamento stesso e quindi non può uscire dall’ambito della ragione (senza attributi), che questa volta cade però in una petitio principii, in un ragionamento cioè fallace. Insomma la questione è ridondante, perché ammettendo che l’argomento da convalidare (da credere, verso cui aver fede, da considerare possibile) sia l’esistenza di Dio, non è corretto, né accettabile, in seconda istanza (dopo aver decretato l’impossibilità per la ragion pura di addivenire a ragioni comprovanti la sua esistenza), reintrodurre Dio con argomenti ritenuti “pratici” e così differenziarli da quelli puramente teoretici. Questi vengono comunque espressi e giustificati (all’apparenza) con locuzioni logiche e razionali. D’altra parte anche la “ragion pratica” ha una componente da Kant definita “ragion pratica pura”. Il filosofo non poteva accettare che la ragione, intesa come funzione regolativa delle categorie dell’intelletto, rimanesse in quest’ambito latitante e allora la rende responsabile della “regolazione” delle facoltà del desiderare, delle volizioni. Ad opera di questa mediazione le componenti razionali rivestono (nascondono) per bene tutto quanto. La volontà morale, vista in relazione alla questione esistenza di dio e immortalità dell’anima, acquista dunque una dimensione razionale, sebbene si fondi sui desideri e sull’esito di questi quando vengano appagati, cioè a dire i sentimenti di piacere e benessere (questione trattata diffusamente nella “Critica del giudizio”). Secondariamente nell’argomentazione cosiddetta “pratica”, Kant parte da postulati (Dio e immortalità anima, libertà) che non possono esser dati per scontati, ed è sostanzialmente privo di valore “sentirli” come veri. Anzi essi rappresentano proprio le questioni che si intendono giustificare. Il tutto pare a Kant coerente e corretto utilizzando a ogni buon conto sempre e comunque un qualche tipo di ragionamento. Un bel pasticcio, in definitiva. Ma qualcuno, come la storia dimostra, ci può cascare tanto più se non è avvezzo ai trabocchetti della retorica. Kant non può e non vuole uscire dalla ragione, ma rimane impantanato nella funzione emotiva, desiderante, postulatoria. La questione in definitiva si risolve in questo: il ragionamento non arriva a Dio, la volontà di credere (W.James, 1897) e il desiderio invece sì, ma questi non sono dirimenti quando si vuol “sapere” qualcosa e tuttavia Kant, in quanto grande razionalista, fa come se anche la funzione desiderante e quella volitiva siano diretta conseguenza di un nucleo originario a questo punto creduto e postulato come perfettamente razionale. Come se, in anticipo con i tempi, ventilasse la presenza di un sito neuronale originario in dotazione alla specie umana da cui, del tutto naturalmente, scaturiscano ragione, volontà e desideri in perfetta armonia e solidarietà tra loro. C’è da dire, con una qualche punta d’ironia, che miglior risultato avrebbe avuto il ragionamento kantiano appena ricordato se fosse stato necessario giustificare un dio negativo, volto cioè al male. In questo caso alcune questioni si sarebbero chiarificate con più facilità. Comunque i termini della faccenda non possono essere ribaltati, se non altro per rispetto nei confronti di chi formula, con l’impegno di tutta una vita dedicata allo studio e alle riflessioni, il proprio sistema di pensiero. La ragion pratica di Kant pone l’accento, dunque, su un aspetto che rimarrebbe marginale ove si trattasse la questione esistenza dio dal solo punto di vista logico e argomentativo. Mi riferisco nuovamente alle componenti psicologiche del soggetto che pensa. Alle emozioni, ai sentimenti, alla volontà/intenzione, ai desideri, alle esigenze, al senso di stupore e meraviglia, al sublime, alle motivazioni. Tutti ambiti che non si esprimono, compiutamente, per quanti sforzi si facciano, col solo ragionamento, ma che si manifestano seguendo dinamismi spesso autonomi. Quando accade che le proposizioni si riferiscano alle emozioni, ai sistemi volitivi (desideri, volontà, intenzione, ecc.), può sembrare che anche in questo contesto la ragione si muova senza ostacoli, magari assumendo un appellativo che la caratterizzi (ad esempio ragion pratica) e in effetti la ragione riesce continuamente a far sentire la sua presenza, il suo influsso. Essa manipola, riorganizza ogni possibile aspetto della realtà interna (come di quella esterna, seppur con gradualità diverse a seconda delle condizioni in cui viene a trovarsi), e a sua volta è determinata anche dal terreno organico che la sottende. Un fatto quest’ultimo da prendere in seria considerazione, se non altro per una esigenza di completezza nel condurre queste riflessioni. Ad esempio, sono recenti gli studi circa l’influenza dell’ossitocina sul comportamento empatico umano (si vedano gli studi di neuroetica e neuro economia a tal proposito). Quando la produzione di questo ormone è scarsa, infatti, il soggetto riesce, per esempio, con grande difficoltà a comprendere (a mettersi nei panni di) chi soffre oppure ha un atteggiamento dichiaratamente aggressivo, superbo e ambizioso nella vita di relazione. Insomma è un evidente egoista auto centrato e tuttavia la sua personalità è determinata, oltreché dal libero arbitrio, dalla produzione difettosa di un ormone e chissà di quanti altri, inoltre almeno dall’influenza dei neuroni specchio studiati dal neuro scienziato italiano G. Rizzolatti. Forse le donne sono più portate alle relazioni interumane e all’empatia perché sia l’ossitocina sia i neuroni specchio si trovano in abbondanza nel loro organismo. L’ormone è implicato nella stimolazione della muscolatura liscia dell’utero durante il travaglio e il parto, i neuroni specchio sono certamente parte in causa durante lo svezzamento e la relazione madre-figlio. In conclusione: tirando in ballo, consenzienti oppure no, le componenti psicologiche, emotive, sentimentali, desideranti, si può eludere in parte la ragione (e/o illuderla) anche se non è mai integralmente soppressa. Anzi accade che appaia prodotto razionale e ragionevole ciò che presumibilmente non è se non espressione mediata di altro. Di sentimenti, di emozioni, di paure e angosce. Insomma la parola spesso sta al posto di (fa le veci), sia pure in maniera impropria e non esaustiva, di un’emozione o un sentimento e tuttavia di questi si tratta: di emozioni, sentimenti, desideri, volizioni, di motivazioni psicologiche. Secondo Kant, in sintesi “l’uomo morale può ben dire: io voglio che vi sia un Dio” (citato in Abbagnano, vol 2, p.215). Rammentando che si può volere anche ciò che è assurdo, illogico, irrazionale, irragionevole.. Esaminando la proposizione citata tutto è più chiaro: alla ragione pratica corrisponde sicuramente l’ambito del desiderio e della volontà. Le rappresentazioni mentali attuate da queste funzionalità, così come la “forza” che le rendono operanti, accadono al pensiero, dunque non hanno un bisogno assoluto di dimostrazioni per dar segni di sé, sebbene sia sempre possibile tentarne una giustificazione. Freud parlava di processo di razionalizzazione in simili occorrenze. La ragion pratica, così come quella teoretica, la ragione insomma, non riesce a render conto davvero dell’esistenza di Dio, se non appellandosi a quelle facoltà del pensiero più vicine alla creatività, alla produzione di fantasia, alle funzioni desideranti. Oppure decidendo a priori, imponendo qualcosa a prescindere dal suo grado di realtà. A prescindere anche dalla sua possibilità intesa in senso probabilistico. Ma anche facendo questa operazione non si giunge ad alcuna dimostrazione accettabile, né tanto meno dirimente. In tale maniera non solo si crede in Dio, in assenza di prove evidenti, logiche, scientifiche, ma si crede illusoriamente che Egli sia giustificabile razionalmente. Kant è riuscito, comunque, a cogliere un aspetto della questione che forse ci può aiutare a determinare la non esistenza di quel dio la cui affermazione è sempre stata così lacunosa e impossibile. Le riflessioni del grande filosofo sortirebbero dunque indirettamente l’effetto contrario rispetto a quello che lui stesso s’era prefissato di ottenere. Alcuni elementi facenti parte della sua dissertazione sulla ”ragion pratica” potrebbero, infatti, sostenere il mio argomento (prova) a favore dell’inesistenza di Dio. Ciò avvalorerebbe ancor più l’idea secondo la quale è ingannevole pensare che Kant abbia “dimostrato” l’esistenza di Dio appellandosi alla ragion pratica, dopo averne decretato l’impossibilità attraverso la ragion pura. Tesi, quest’ultima, a cui spesso alcuni si appellano per bilanciare la deprimente incapacità della ragione, anche quella del sommo Kant, di sortire conclusioni accettabili in questa ardua (forse inutile) tematica. B. Russell diceva (1949), con una indubbia punta di ironia, che sarebbe stato assai difficoltoso dimostrare con il ragionamento la non esistenza di entità come gli dei dell’antica Grecia. Così come era ed è problematico cercare argomenti a favore dell’esistenza di quelle divinità e dello stesso Dio della Bibbia. Il filosofo inglese dichiarava di definirsi agnostico (sospendendo il giudizio definitivo) in presenza di un pubblico di soli filosofi, non essendo possibile scovare argomenti conclusivi in un senso o nell’altro riguardo Dio e le divinità in genere. Tuttavia, quando parlava con la gente comune, sentiva la definizione di ateo piuttosto calzante. Le probabilità a favore dell’esistenza di Dio o degli dei dell’antica Grecia erano e sono talmente ridotte che, avvicinandosi allo zero, giustificano eventualmente un'autodichiarazione di ateismo che stante all’etimologia significa in breve non dio, assumendo, appunto, che quest’ultimo sia “oggetto” della realtà talmente improbabile da renderne trascurabile l’indeterminato residuo. Nella pratica, cioè al di fuori del puro e rigoroso ragionamento teoretico, è quasi sempre utile evitare la moltiplicazione degli enti (Ockham), tralasciando quelli non sottoponibili a rigore scientifico, logico e sensoriale. Adottando, senza limitare troppo i nostri orizzonti, un certo principio di economia e utilità (Marx, positivismo). Anche qui il cosiddetto buon senso dovrebbe avere qualche possibilità d’esprimersi in luogo dei salti cosmici (o quantici) del desiderio fantasioso. Insomma “aver fede” nell’inesistenza di Dio, come ha detto, sorridendo, Margherita Hack, in una intervista televisiva di qualche anno fa, anche nell’impossibilità di giungere da prove certe (100%). Il cento per cento, in verità, non si manifesta in alcun fenomeno conosciuto. Non c’è alcuna cosa che la si possa definire pura, cioè composta soltanto da se stessa (forse il bosone di Higgs?), né tanto meno è congruo affermare che qualcosa sia conforme al cento per cento a quel che si è detto della cosa stessa. Questo ovviamente, e ancor più, vale per i ragionamenti che entrano nel merito delle probabilità. I fatti (le “cose”, gli avvenimenti, ecc.) del mondo sono impuri, probabili o improbabili: è necessario tenere sempre presente questa logica di fondo che permea la realtà. L’evoluzione delle specie e l’istinto di sopravvivenza di ogni individuo sono il frutto della nostra cosciente, a volte del tutto istintiva, capacità di giudicare ciò che i fatti rappresentano, le possibilità che incidono maggiormente nelle nostre funzioni vitali. Appunto i fatti stessi sono le evenienze che hanno la maggiore probabilità di verificarsi e incidere nella realtà, anzi rappresentano (sono) la realtà stessa. Un fatto (“cosa”, avvenimento, ecc.) è quindi la possibilità più frequente, sottoponibile a logica, sensorialità e sperimentazione (in tempi, modi e proporzioni diversi). L’illusione è la parola che si riferisce a quel fatto, ammesso lo si voglia denominare così, che ha possibilità trascurabili, a volte francamente impossibili, che inoltre non è sottoponibile allo stesso cimento appena descritto. L’illusione non ha certamente alcuna possibilità giustificativa nei confronti di se stessa. Non è oggettivabile, cioè di norma non è condivisibile, ma rappresenta con altissime percentuali di probabilità un prodotto soggettivo, fenomenologico, proveniente dal “foro interiore” e spesso da alterazioni metaboliche e neurologiche, specie nella sua deriva allucinatoria.


Svolgimento dell’argomentazione

Considerando le premesse e i ragionamenti appena descritti proverò lo stesso, assecondando un consolidato spirito disputante (de omnibus disputandum), a fare un “discorso” per vedere quali esiti vi siano nell’affermare l’esistenza del dio monogamico e personale che fonda la fede delle tre religioni più diffuse e/o importanti (Cristianesimo, Islam, Ebraismo) e come si possa poi giungere a decretarne la probabilistica e ragionevole inesistenza. La mia “prova” è da intendersi come cimento, esperimento, basato sulla riflessione argomentativa, come un coscienzioso e tuttavia semplice gioco verbale alla stregua dei giochi linguistici cui fa riferimento Wittgenstein o agli esperimenti mentali che caratterizzano certa filosofia. Insomma è un tentativo di comprovare che l’idea di Dio è appunto soltanto un’idea immaginosa e inverosimile tra le tante, scaturita storicamente dalla creatività fabulatoria e letteraria dell’uomo/donna, con la funzione prevalente di acquietare gli animi (menti) e consolarli (ebbene sì), ostacolando, per quel che è possibile, la deriva nell’angoscia e nello sconforto più profondo.

Comincerò, dunque, da due distinti punti di partenza (prospettive diverse)

1) Dato un dio:

a) buonissimo, b) onnisciente c) caritatevole (interessato nel bene a noi), d) misericordioso, e) onnipotente, f) creatore (dal nulla realizza tutte le cose), g) esistente ontologicamente (facente parte dell'inventario completo del tutto come scriveva C.D. Broad),

h) Personale (noi simili a lui e viceversa), i) ordinatore dell’universo (della realtà conosciuta), l) che permette la vita eterna, ecc.

Questa sommaria descrizione dei predicati più requenti condivisi dall’ente Dio è frutto di decisioni, congetture, ipotesi, deduzioni, ecc., da parte dei padri della Chiesa, imam, rabbini, e diffuse nei testi sacri corrispondenti, oltreché essere oggetto di credenze, illusioni, desideri, preghiere, popolari.

Non ho voluto essere esaustivo a questo riguardo innanzi tutto perché non è possibile esserlo in un ambito come quello che riguarda le produzioni mentali che sono molteplici e variegate ed hanno il privilegio di non basarsi su riscontri oggettivi, secondariamente per via del fatto che i predicati che ho riportato sono effettivamente i più diffusi ed eventualmente i più interessanti da questionare.

2) Dato un soggetto (Io, persona, ente cosciente e conoscente, ecc.) capace di funzione desiderante, egli desidera appunto una divinità:

a)buonissima, b) che tutto conosca c) interessata a lui nel bene, d) misericordiosa, e) onnipotente, f) creatore (origine di ogni realtà) g) esistente e interattivo con gli uomini (potrebbe essere esistente e non interagire, come nel deismo) h) personale, così possiamo aspirare a lui ricambiati (raramente, a volte, sempre) in maniera adeguata alle nostre esigenze, visto che queste riflettono (a immagine) quelle di dio stesso i) ordinatore della realtà, contrastante il caos che è pericoloso, infido, mutevole, non predicibile-imprevedibile) l) in grado di permettere la vita eterna (col corpo… ma anche solo con la mente).

È verosimile, ragionevole, plausibile, assennato, credibile, probabile, che 1 e 2 corrispondano in maniera congrua nella realtà (non entrando volutamente nella questione relativa al suo significato)?Sarebbe assennato scommettere (Pascal) sulla completa o anche soltanto parziale sovrapponibilità, potremmo dire ontologica, dei predicati compresi in 1 e quelli inclusi in 2? Nel senso che gli attributi in 2 rappresentino la percezione, la pensabilità concreta, il riflesso, di quelli espressi in 1. È possibile, in altri termini, che una serie di desideri (congetture, ipotesi, fantasie) corrisponda ad un ente che abbia quelle stesse proprietà senza che di questo si possa fare esperienza cognitiva, in assenza di qualsiasi convalida logica, senza che sia possibile sottoporlo a metodologia scientifica, ma si presenti, appunto, soltanto in veste congetturale, letteraria, desiderante? Un ente, in altri termini, costruito soltanto sulla base di esigenze umane generalizzabili (e talvolta personali), o su necessità e desideri pilotati da altri (famiglia, autorità religiose, contesto interpersonale) e diffuso attraverso insegnamenti (catechesi) ad alta penetranza cognitiva, dal momento che avvengono molto spesso nell’epoca dello sviluppo psicologico e/o sono d’impatto forte sul soggetto in ragione di una presenza sociale pervasiva e continua. Verosimile, probabile, che desideri così imponenti, grandiosi, trascendenti, si realizzino, vengano ipostatizzati, in un ente, il sommo ente, divenendo così esperibili, oggettivi, capovolgendo in questo modo e surrettiziamente lo stesso significato comunemente assegnato alla parola desiderio? È conveniente o eccessivamente rischioso scommettere a favore della tesi sovrapponibilità se la posta in gioco è estremamente seria, ad esempio la vita dello scommettitore? È ragionevole pensare che i sogni e le più superbe fantasie, divengano realtà e facciano fronte a tutto quello che si agogna nei momenti di grave sconforto o di malcelata esaltazione? Oppure ancora, credere davvero a ciò che si è descritto a tavolino, consultando a piene mani i testi sacri che a loro volta sono il risultato di chiose, interpretazioni, aggiunte di altri testi sacri e così via, presumibilmente fino alle epoche prive di scrittura? È probabile che desideri, specie di natura complessa, corrispondano a realtà non suscettibili di verifica sensoriale? I personaggi delle narrazioni hanno una realtà sostanzialmente identica o diversa da chi sta scrivendo in questo momento, da tu che stai leggendo, dal bambino che soffre la fame in qualche metropoli del cosiddetto terzo mondo (o anche del cosiddetto primo mondo)? È sufficiente per chi ha fede in Dio pensarlo solamente come parola senza referenti esterni, come un’entità di fantasia che si muove, decide e riflette in analogia ai movimenti, le decisioni, le riflessioni di ogni personaggio in un qualsiasi romanzo ben congegnato? Una serie di quesiti che potrebbero facilmente essere superabili solo che si utilizzi il così spesso strapazzato buon senso comune (“common sense” di G.E.Moore) che mai come in questo caso (e sappiamo che spesso non è così) dovrebbe avere un certo peso, essere dirimente, visto, tra l’altro, che non ci troviamo in un ambito di bizzarre esegesi testuali o sperimentazioni altamente sofisticate, ma presumibilmente nel vissuto quotidiano. In quei vissuti mentali che ci permettono di fare cose nella vita a seguito di cose fatte nella mente o viceversa. Mi pare decisamente più razionale o anche soltanto più equilibrato porre l’accento sulla assoluta improbabilità che i punti descritti in 1 corrispondano (veramente) nella realtà a quelli tratteggiati in 2. Enfatizzare l’ipotesi che considera le supposte possibilità esistenziali residue, com’è nel caso di Dio (fate, unicorni, ecc) o ancora porla a fondamento di una fede che non sente ragioni, comporta ineluttabilmente fare il gran salto nel mondo dell’illusione, proprio come a suo tempo l’aveva descritta S.Freud (1927). Questo mondo è limitrofo a quello della fede nelle entità divine ed anzi tra i due vigono fecondi scambi di informazione e migrazioni reciproche fin dai tempi remoti. Dio, in buona sostanza, è un fenomeno illusorio all’occorrenza particolarmente complesso e spesso caratterizzato da quella che appare essere sofisticata razionalità. Questa conclusione non può e non vuole intendersi come categorica, ma soltanto altamente probabile. Se fosse più razionale o sensato il discorso che considera la sovrapponibilità di desiderio-illusione e realtà e credere che l’evento con probabilità minima divenga, anzi sia, paradossale, consolidata e “recidivante” possibilità in atto, verrebbe meno anche il concetto (e/o strumento) stesso di calcolo probabilistico, che non sarebbe più di nessuna utilità a dispetto, tra le altre cose, di come nella contemporaneità vengono formulate le leggi scientifiche che sono, notoriamente, probabilistiche, in luogo di quelle che si volevano arbitrariamente stabili e incontrovertibili delle epoche passate. Senza considerare le decisioni quotidiane, di nuovo senso comune, formulate più o meno sulla base delle probabilità conosciute o semplicemente intuite che avvenga o meno un certo fenomeno o una certa evenienza a breve o a lungo termine. Per fare un solo esempio: di solito, in circostanze usuali, si esce di casa pur sapendo (se lo si pensa) che vi è una possibilità, seppur remota, di essere il bersaglio di un asteroide intergalattico (anche Teoria delle decisioni di J.F. Nasch jr.). In definitiva è una questione di economia mentale, cognitiva: se cercassimo di prevedere tutto saremmo impediti in ogni movimento. “Per ogni agire ci vuole oblio…” scriveva Nietzsche (1874), anche se il suo riferimento preciso era il danno che l’ipertrofia della storia operava sulla realtà del presente. Come sappiamo la vita non è eterna ed è meglio utilizzare al meglio le nostre energie e il nostro impegno, non solo riguardo la lettura e lo studio, ma anche nella pratica quotidiana e nell’ambito delle riflessioni epistemiche. Al discorso sulle probabilità ragionevoli, che sono il risultato di calcolo e analisi, si connette quello sui desideri e le illusioni, frutto di produzioni immaginifiche (si veda la concezione del desiderio nella filosofia postmoderna, specie francese), ma che assai spesso vengono formulati, o accadono, semplicemente sulla scorta di qualcosa che non abbiamo, che non è presente o vengono elaborati in reazione ad ostacoli, agenti malevoli o come alternativa ad esiti ingrati e non voluti e a seguito di anomalie del Sistema nervoso Centrale. Derivano infine dalla estremizzazione di desideri più semplici, sottoposti ad una sorta di mostruosa lievitazione causata delle facoltà fabulatorie e creative umane. Vito Mancuso (L'anima e il suo destino, 2007, p 48), teologo pervenuto negli ultimi anni ad una certa notorietà per alcune sue idee non propriamente ortodosse in materia teologica (logos, ragione intorno a Dio), sostiene di auspicare una impostazione nuova di quest’ultima, chiamandola universale e “condotta a partire dai dati della ragione”. Nel pensiero di questo autore è presente l’auspicio che la ragione possa aiutare il nostro pensare partendo da essa stessa, ma successivamente egli suggerisce la possibilità di addentrarsi in territori diversi, caratterizzati da altre peculiarità. Non più la sola ragione, ma una ragione che sia la somma di intelletto più coscienza morale, secondo quanto affermato da Kant, che, come abbiamo visto, usava l’espressione “ragione pratica”. A questo punto non sarebbe esistente oppure vero ciò che è soggetto a ragionamento valido, sottoponibile alla sperimentazione, evidenziato dalla sensibilità, ma anche ciò che è intrinsecamente nobile, dotato di bellezza morale, pensato in grado di “produrre bene” riempiendo le nostre vite, anche se tutto questo insieme di predicati è frutto soltanto delle nostre descrizioni (letterarie, fantastiche, congetturali, fideistiche). "Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas" (in sintesi: in te stesso è contenuta la verità), diceva S. Agostino e mi pare piuttosto calzante a questo punto del nostro ragionamento, anche se per verità qui è da intendersi ciò che si anela (si vuole) essere la verità. Seguendo le premesse di Mancuso non si giunge lontani ove si voglia arrivare, per esempio ad una prova (razionale) dell’esistenza di Dio, anzi si ammette indirettamente che è impossibile giungervi se non reclutando altri aspetti dell’umano pensare (e agire). Di nuovo l’universo del desiderio, delle emozioni, delle angosce. La ragione sta altrove o al più, come già scritto, filtra, trasforma, da’ voce a questo magma che a rigore di per se sarebbe indicibile perché facente parte del sentire umano. Assai più onesto e corretto sarebbe ammettere direttamente che ci troviamo di fronte ad una impossibilità strutturale. Infatti, come dicevo all’inizio, è possibile che sia insensato (non ha senso, non ha senso?) porsi la domanda sull’esistenza divina. Ma noi vogliamo lo stesso continuare ad affrontare le argomentazioni che essa induce senza per questo credere (aver fiducia che…) tutto ciò giunga a qualcosa di conclusivo. La funzione desiderante ha come sue caratteristiche precipue quella di “riempire le nostre vite” per usare parole di Mancuso (non riferite però esattamente al desiderio), spesso ha nobili finalità e può quindi essere foriera di eventi benefici. Naturalmente il desiderio ha in sé anche qualcosa di intrinsecamente negativo, di maligno, specie se è ego centrato e viene utilizzato nei sistemi economico-finanziari di tipo capitalistico per incrementare i profitti di quei pochi, infatti, che desiderano proprio questo genere di occorrenza. Non si giunge però a nulla, dal punto di vista razionale, facendo aperture del genere (coscienza morale, desiderio), come intende fare Mancuso. Anzi si abdica alla ragione per entrare in territori ove tutto è possibile, soltanto che lo si giudichi valido, buono, morale, bello. In queste accezioni la ragione non può essere, come dice il teologo, l’organo privilegiato “dell’autentica dimensione spirituale”, ventilando che quest’ultima sia una dimensione “totale “, di gran lunga superiore alla ragione di mero e consueto intendimento. Ma al solito, concependo così la faccenda, si entra nel territorio della fede, quindi in un ambito che, trascurando almeno in parte la ragione, dà libero corso proprio a quei desideri che fondano le attribuzioni date a Dio nel corso dei tempi. Queste dunque si identificano non tanto con proprietà sensibili, sperimentabili, razionali e logiche, ma con proprietà estetiche (nel senso kantiano), morali, in definitiva desideranti, che aspirano (hanno la funzione di) ad ottenere qualcosa di cui si ha bisogno. L’ente Dio assicura tutto questo anche se purtroppo soltanto nella dimensione irreale della fantasia e della finzione letteraria (religiosa). In definitiva dell’illusione, ritornando a quel Freud che negli ultimi tempi è stato un po’ estromesso dal dibattito culturale in genere, e ricordando anche l’analogia che il filosofo di Treviri fece tra funzione degli oppioidi e religione. Essere entrati nel campo delle probabilità ci fa capire che i numeri e il ragionamento logico giocano a sfavore dell’ipotesi Dio. La disgiunzione tra ente desiderato ed ente esistente è infatti irriducibile anche secondo i più comuni calcoli del buon senso.


Conclusione


Dio è improbabile nella sua esistenza, tanto che, forzando i termini della questione, si può essere “certi” che sia unicamente il prodotto di nostri desideri (e/o illusioni) irrealizzati e inattuabili. Desideri che potrebbero appartenere a ciascuno di noi, poiché nessuno, se potesse trascurare la realtà, rifiuterebbe o si scaglierebbe contro una entità (o il suo desiderio) sommamente buona, in grado di accudirlo e proteggerlo. La realtà comunque è quella che è e la verità ha le sue urgenze. Né verità, ne realtà, ad ogni buon conto, hanno a che fare e si trovano a proprio agio nei territori dell’illusione, della fantasia e dei desideri. Siamo giunti ad affermare tutto questo sulla base sia del ragionamento, sia valutando la psicologia. Componenti razionali e componenti psicologiche, non soltanto le une o le altre, riescono a “dimostrare” che Dio (le fate, gli unicorni, gli dei dell’antica Grecia) non fanno parte di questo mondo. Tuttavia Dio, assieme al contenuto parentetico, può dirsi indubbiamente esistente sotto forma di costruzioni desideranti, concetti, produzioni letterarie, ipotesi, ecc. Al credente non conviene sottoporre questi processi della mente ai rigori della ragione. Essi, danno luogo, infatti, ad una “ontologia” speciale che col ragionamento corretto tende ad essere invalidata, a “prosciugarsi”, ad attenuarsi cioè inesorabilmente, potendo divenire, anche agli occhi del più devoto dei fedeli, inutile sul piano psicologico. Nel momento che si addiviene alla sua irragionevolezza, infatti, viene meno la sua funzione tranquillizzante e consolatoria nonché quella relativa all’offerta di senso. Si sa, tuttavia, che la fede è costitutivamente altra rispetto anche ad un efficace ragionamento, sia pure corroborato da richiami psicologici. Checché ne pensasse, tra gli altri, Tommaso d’Aquino, dovremmo quindi sempre aspettarci anche le più strampalate e irrazionali obiezioni. Dio è comunque un ente mentale (un nome, un concetto, un personaggio letterario) e soltanto in virtù di questa sua attribuzione può essere eventualmente elencato nell’inventario completo del tutto-, come diceva il già citato filosofo inglese C.D.Broad. Se qualche “credente” si contentasse di questa specifica posizione ontologica (mondo 3, ma anche mondo 2 di Popper) allora, e solo allora, riuscirebbe a non degradare la facoltà più complessa, strabiliante e per molti versi problematica, che la natura ha reso disponibile alla specie umana: la ragione. Nel medesimo tempo potrebbe “vivere” la fede come efficace sussidio al suo stesso benessere. In definitiva fare pragmaticamente “come se “ (H. Vaihinger, 1911) esistesse la divinità. Qualcuno, forse per sua fortuna è in grado di far proprio questo atteggiamento mentale che però ha la sventura di sconfinare spesso in autentica ipocrisia. C’è qualcosa in me che mi fa desiderare che le mie argomentazioni siano fallaci, ma purtroppo ho l’impressione che possano essere sottoposte a confutazioni soltanto con metodiche eristiche (come Eutidemo nel dialogo omonimo di Platone), o vengano “aggredite” sulla scorta di più o meno cavillanti equivocazioni. In conclusione direi che proprio nella lingua italiana si condensa bene quanto scritto in questo breve saggio osservando la seguente trasformazione-identità di significato:

<IO E DIO> / <IO ED IO>.

Andrea Pitto (Medico e Filosofo)


Bibliografia

Abbagnano, N., 1960, “Linee di storia della filosofia”, Paravia, Torino

Berti, E., 1991, “Storia della filosofia”, Laterza, Roma-Bari

Broad,C.D., 1923, Scientific Thought, Routledge Kegan Paul, Londra

Cazzaniga, Michael S., 1988, “Stati della mente Stati del cervello” (Mind Matters), Giunti Barbera, Firenze 1990.

Freud, S., 1927, “L’avvenire di un’illusione” in Opere, vol 10, Boringhieri, Torino 1978

James, W., 1897, “La volontà di credere”, Principato Editore, Milano, 1963

Kant, I., 1781, “Critica della ragion pura”, Laterza, Roma-Bari 1981.

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Mancuso, Vito, 2007, “L’anima e il suo destino”, Raffaello Cortina Editore, Milano

Nietzsche, F., 1871, “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, Adelphi, Milano 1992, p.8

Pascal, Blaise, 1670, “Pensieri”, Rizzoli, Milano 1952

Platone, “Eutidemo”, in Opere, vol 5, Laterza , Roma-Bari 1996

Popper R. K, Eccles J.C., 1977, “L’Io e il suo cervello”, Armando Editore, Roma 1981

Quine, W.V.O., 1948, “Su ciò che vi è”, in “Il problema del significato”, Ubaldini, Roma 1966.

Rizzolatti, G., Sinigaglia, C., 2006, “So quel che fai”, Raffaello Cortina Editore, Milano

Russell, Bertrand, 1949, “Sono ateo o agnostico?, in “Dio e la religione”, Newton, Roma 1994.

Varzi, A.C., 2005, Ontologia, Laterza, Roma-Bari


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