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Il volo del bolo

 

L’ultima volta che lo vide risale a molti anni fa, era il fratello maggiore di uno che lavorava con lui, si era da poco diplomato in ragioneria ed aveva una gran voglia di emergere, naturalmente a discapito degli altri, avevo capito subito quanto fosse stronzo: pedante e supponente fino alla nausea, occhi piccoli, rotondi e vicini, grugno prognato, labbra sottili e fronte sfuggente con un ciuffetto ebete che gli pendeva da un lato tanto che doveva continuamente storcere la bocca per soffiarlo al suo posto, il che lo istupidiva ancor più; il Lombroso lo avrebbe senza tema di dubbio classificato idiota o nella migliore delle ipotesi un potenziale delinquente però aveva dalla sua parte una raccomandazione inattaccabile: era anch’egli nipote del braccio destro, a volte anche sinistro, del capo. Arrivava sempre prima di tutti sia per arruffianarsi, nel caso ce ne fosse bisogno, i superiori, uno, che per vedere l’ordine di arrivo in ufficio degli altri, quattro, visto che il suo compito oltre quello di tenere la contabilità consisteva anche nell’occuparsi delle manchevolezze dei pochi dipendenti. Suo zio intesseva intrallazzi di ogni genere col capo, un fanfarone che però sarebbe stato capace di vendere vibratori usati, fatti passare per nuovi, ai terremotati. Lì, o erano parenti oppure erano legati dai vincoli ancor più stretti dell’omertà. L’unico a non avere agganci, a parte un conoscente che aveva messo una buona parola per farlo assumere, era Antonio, il factotum dell’azienda. Lui, lo stronzo, si divertiva alle sue spalle finché in giorno riuscì, con una scusa pretestuosa, a farlo licenziare per fare assumere un suo amico.

Dovettero passare una ventina d’anni prima di ricevere sue notizie da un ex dipendente incontrato per caso; ecco quello che gli raccontò: - Pochi anni dopo il tuo licenziamento la ditta fallì, suo zio si suicidò, suo fratello, tutta un’altra pasta, mise su famiglia e trovò un lavoro serio mentre il capo scappò in sud America col maltolto e il caro ragioniere finì a lavorare come “negriero” in una carovana di facchini. Lì, anche se era ancora in condizioni rispettabili doveva però trattare anche con avanzi di galera e doveva stare attento a quel che faceva e diceva. Si sposò e disgraziatamente ebbe un figlio gravemente handicappato che fu ricoverato in un ospizio dove giace tuttora, la moglie scappò dalla disperazione e lui si mise a bere, tanto che venne licenziato. Perse tutto quel che aveva, anche la casa, ora vive, si fa per dire, come un barbone, bazzica dalle parti della stazione centrale, mangia all’Opera Pia san Francesco e alla domenica chiede l’elemosina davanti ad una chiesa- Questo è tutto, disse. Lo salutò senza mancare di chiedergli davanti a quale chiesa mendicasse e lentamente maturò in lui il desiderio di rivederlo, più per un senso di rivalsa che per altro.

Dopo qualche tempo passò davanti alla chiesa dove mendica ed era lì, seduto per terra con accanto un cartone di vino, lo riconobbe perché non aveva perso il vizio di soffiarsi i capelli di lato anche se di capelli ormai gliene erano rimasti ben pochi, giusto uno sparuto ciuffo da soffiare via, ma probabilmente avrebbe continuando anche senza più capelli tanto era incistata l’abitudine che ormai era diventata un tic. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, sputargli in faccia quanto fosse stato stronzo, ma la pena, la compassione per quel relitto umano prevalse e gli allungò una banconota da mille lire. Alzò gli occhi stupito per quella non comune elargizione e per un attimo i loro sguardi s’incrociarono, pensò che l’avesse riconosciuto ma non ci avrebbe giurato, subito dopo tolse lo sguardo ringraziando ripetutamente col capo. Lo guardò ancora per qualche secondo, ma lui aveva già rivolto gli occhi altrove. Volse le spalle e se ne andò, una lacrima gli rigò il viso.   

A cura di Max Bonfanti



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