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Bioetica, politica e multicultura



Franco Manti è professore di Etica sociale presso l'Università di Genova. Tra i suoi numerosi ruoli ricordiamo la nomina di Cultore della materia in Filosofia Morale e Bioetica, presso la Facoltà di Scienze della Formazione della stessa università dove è stato professore di Bioetica. Ha insegnato Bioetica anche presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Urbino.

Svolge un’intensa attività di operatore culturale presso il Centro Culturale “Rosselli” di Imperia di cui è stato presidente e nel quale è tuttora coordinatore del Comitato Scientifico e presso L’Istituto Italiano di Bioetica di cui è membro del Direttivo dal 1994 e  Segretario Generale  dal 2001.



Professor Manti, credo che nessuno come lei possa spiegarci che cosa sia la Bioetica. Che implicazioni ha nella nostra vita quotidiana?

Premesso che non è possibile in un’intervista rispondere in maniera del tutto esauriente, tenterò di evidenziare alcuni aspetti che ritengo fondamentali nel definire la Bioetica e la sua impatto sulle nostre vite.

In letteratura sono, ormai, molte le definizioni di Bioetica. La più condivisibile, da parte mia, è quella proposta dalla  Encyclopedia of Bioethics (ed.1995):  La bioetica è lo studio sistematico delle dimensioni morali – inclusa la visione morale, le decisioni, la condotta e le politiche pubbliche – delle scienze della vita e della cura della salute, con l’impiego di varie metodologie etiche in un contesto interdisciplinare.

Personalmente ho una visione, per così dire, estesa della bioetica che ne recupera e ampia il significato proposto da Potter quando coniò questo termine. In sintesi, il dominio della bioetica riguarda la riflessione morale, politica e giuridica relativa a tutto ciò che attiene alle diverse forme di vita presenti nella biosfera e alla rete di relazioni fra le stesse, condotta attraverso un approccio interdisciplinare e sistemico che tiene conto di indicazioni metodologiche ed epistemologiche proprie del pensiero della complessità. Naturalmente, possiamo individuare molti ambiti di studio specifici riguardanti noi umani (bioetica clinica, implicazioni etiche della ricerca genetica, questioni morali di inizio e fine vita ecc); gli animali non umani (etica della biocultura, diritti inerenti, dignità, interessi, ecc.); l’ambiente (il valore morale da riconoscere, rapporto costi - benefici nella tutela ambientale, principi morali cui riferirsi nel rapportare natura e cultura, ecc.). Inoltre, si stanno sviluppando  specifiche aree di studio quali la biopolitica e il biodiritto, ma per quanto ognuno di noi possa privilegiarne una, credo non sfuggano le connessioni e l’influenza reciproca sussistente fra riflessioni etiche, politiche e giuridiche .

Vorrei, anche, sottolineare come la bioetica vada intesa, soprattutto, come un’etica applicata, una disciplina nella quale l’emergere di casi e problemi influisce sulla ricerca teorica aprendo nuove prospettive e mettendo in discussione tradizioni di pensiero autorevoli e consolidate. Un esempio per tutti: quello di riconoscere le generazioni future come soggetti di diritti tali da orientare le nostre scelte, oggi. In breve, ritengo che, come in tutte le etiche applicate, le teorie e l’osservazione, l’analisi, le soluzioni di casi retroagiscano reciprocamente rafforzando le nostre capacità e generando competenze che contribuiscono a dare ragioni delle scelte  che compiamo.        

Da quanto detto  finora emerge come le implicazioni della Bioetica per la nostra vita quotidiana siano enormi. Per brevità, preferisco proporre qualche esempio concernente problemi che ci possono coinvolgere in ogni momento piuttosto che questioni di “frontiera”. Si pensi al consenso informato e alla libertà di scelta terapeutica, alla possibilità di redigere, con valore legale, un testamento biologico, oppure ai cibi con O.G.M., agli allevamenti intensivi, alla tutela e gestione ecologica del territorio. Come si vede, si tratta di questioni che influiscono ogni giorno e in ogni momento sulla nostra vita e sulle quali (come anche su tutte le altre, comprese quelle di “frontiera” quali, ad es., la ricerca biotecnologica) ci richiamano a responsabilità anche nei confronti delle generazioni future. Non possiamo delegare  scelte di questo spessore a nessuno, neanche ai cosiddetti “esperti”, se vogliamo esercitare pienamente il nostro diritto alla cittadinanza attiva.  

A quale età si può iniziare a parlare con gli studenti di Bioetica in modo tale che questa riflessione possa crescere con l’individuo?

Se per ethos s’intende, com’è nell’etimologia del termine, ciò che ci caratterizza e ci è proprio, l’agire che ci rende ciò che siamo, parlare di Bioetica non è mai troppo presto. Con le opportune metodologie didattiche, già alla Scuola d’Infanzia i bambini possono acquisire capacità di ragionamento e comportamenti consapevoli su aspetti concernenti la loro corporeità, la salute, il loro rapporto con l’ambiente e gli animali. Pertanto, l’affrontare, da parte di docenti e alunni, questioni di Bioetica in quanto proprie della nostra vita, degli altri e di ciò che ci circonda dovrebbe caratterizzare l’intero corso di studi. Perché ciò avvenga, in maniera seria e non episodica sono necessarie almeno due condizioni: una specifica preparazione da parte dei docenti e una progettazione collettiva. Sarebbe auspicabile, proprio per la natura stessa della disciplina, che la progettazione e le verifiche della stessa fossero collettive e interdisciplinari. In un Liceo, ad es., Bioetica non dovrebbe essere trattata dal solo insegnate di Filosofia come modulo del suo specifico insegnamento, ma dovrebbe essere oggetto (anche attraverso compresenze) di una programmazione trasversale e interdisciplinare. Come Istituto Italiano di Bioetica, in collaborazione con altre Associazioni, Enti Locali, ecc. siamo giunti all’ottava edizione della Conferenza Nazionale di Bioetica per la Scuola, patrocinata del C.N.B. Sappiamo che oltre alle rete di scuole coinvolte si sono sviluppate varie e, talvolta significative esperienze. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, esse si devono alla passione di pochi docenti che, troppo spesso, vengono posti nella condizione di dover superare ostacoli burocratici e incomprensioni, non sostenuti o addirittura osteggiati da Dirigenti e colleghi incapaci di uscire dalla logica burocratica dell’assolvimento del programma. Va da sé che, in queste condizioni, le stesse potenzialità di crescita di conoscenze, capacità e competenze (a cominciare da quella etica) degli alunni vengono significativamente  ridotte.         

Che rapporto esiste tra Etica e Politica?

Un’altra domanda che esigerebbe molto spazio. In sintesi, potrei dire che etica e politica dovrebbero essere tenute parzialmente distinte individuando, però, un’area d’intersezione. Se non le si distingue si approda a una concezione etica dello Stato che è incompatibile con la sussistenza di un sistema  liberal – democratico (ossia con quanto di “meno peggio” siamo finora riusciti a porre in atto). Per farmi comprendere vorrei sottolineare come dobbiamo tenere presenti due concomitanti fattori: l’eterogeneità della morale e il fatto del pluralismo che implica la sussistenza di diverse concezioni (anche ragionevoli) della vita buona. Se non possiamo fare riferimento ad alcune teoria (e dunque visione morale) completa dobbiamo definire  quanto ci unisce e quanto ci divide tenendo presente che il conflitto morale è ineludibile, è un portato stesso della nostra umanità caratterizzata da diversi gusti e propensioni, visioni.  Vi sono alcuni principi morali che tutti noi condividiamo e, non a caso, insegniamo ai nostri figli. Se ben ci pensiamo, sono quelli che garantiscono il vivere civile e che sono fatti propri dalle Costituzioni (almeno dei Paesi liberal – democratici). Ad es. perfino chi ruba sa che compie un atto eticamente non sostenibile (per quante pseudo – giustificazioni tenti di trovare) oltre che perseguibile. Ciò significa che sui principi morali fondamentali che costituiscono il riferimento per le Carte Costituzionali lo Stato non può transigere, né tollerarne il mancato rispetto. È questo il terreno d’intersezione fra etica e politica. Per il resto vale il principio di neutralità politica  nei confronti delle concezioni controverse delle vita buona.

Quanto al politico di professione credo che quello che ci dice M. Weber su etica della convinzione ed etica della responsabilità mantenga una forte attualità. In particolare, resta valido quanto già affermava Locke: di fronte alle leggi il contadino e il re d’Inghilterra sono uguali, ma il re, visto il suo ruolo,  ha una responsabilità  maggiore proprio perché  deve governare nell’interesse del popolo.

Per quanto, di questi tempi e nel nostro Paese, possa sembrare strano, rimango convinto dell’idea che i Padri Fondatori degli U.S.A. mutuarono da Locke, ossia che le Costituzioni e la politica servono affinché ognuno di noi venga messo nelle migliori condizioni per ricercare la propria felicità    

Alla luce delle sue ricerche il pluralismo, il multiculturalismo e la tolleranza in che misura sono realizzabili nella nostra società?

Per  rispondere a questa domanda credo sia necessaria una “chiarificazione”. In primo luogo, condivido quanto afferma Rawls sul pluralismo. Come affermavo in precedenza, il pluralismo è un fatto, non un valore che auspichiamo si debba affermare. Furono i  filosofi dei secoli XVII e XVIII, impegnati nella lotta per la tolleranza, a “scoprilo” nelle sue implicazioni filosofiche e politiche. Perciò non parlerei di affermazione del pluralismo. Ciò non toglie che vi siano correnti di pensiero (che contestano la modernità stessa) o movimenti politici che vorrebbero ridurlo o eliminarlo. Deve essere chiaro che, trattandosi di un fatto, ciò non può avvenire se non in maniera violenta. Quanto al multiculturalismo, se intendiamo dire che nella nostra società esistono una molteplicità di culture, anche qui parliamo di un fatto che potremmo considerare come una specificità del pluralismo. Se, invece, facciamo riferimento a certe concezioni filosofiche per le quali, ad. es., i diritti culturali di comunità e le tradizioni fanno premio sui diritti umani o la comunità viene concepita come un’entità chiusa e teleologicamente orientata da una concezione  omnicomprensiva della vita buona e viene contrapposta alla società civile, allora ritengo che questo multiculturalismo non sia auspicabile. Anche nella versione del sistema millett  dell’Impero Turco comporterebbe più la convergenza su una serie di regole da rispettare che su un’effettiva tolleranza e, comunque, implicherebbe un potere centrale molto forte per garantire tale rispetto.

Veniamo alla tolleranza. Anch’essa può essere intesa e  “giustificata” in vari modi. Sul piano politico si potrebbe affermare che si tratta di un  modus  vivendi proprio di uno Stato che si attiene al principio di neutralità politica cui mi riferivo nella risposta alla domanda precedente. Se associazioni, comunità, ecc. non mettono in pericolo la convivenza pacifica e non ledono, nei loro diritti fondamentali, sia quanti ne facciano parte sia gli altri cittadini dovrebbero avere pieno diritto alla tolleranza. La novità rispetto ai secoli XVII e XVIII è che le politiche di tolleranza, oggi, hanno a che fare con la convivenza di culture profondamente altre fra loro. Chi governa, le maggioranze dovrebbero “farsi carico” di tale alterità e decidere i confini della tolleranza non sulla base di criteri comparativi fra le culture, ma della compatibilità che il loro esprimersi ha con il mantenimento della convivenza e il rispetto delle leggi e dei principi costituzionali. Sempre ricordando che tolleranza non significa né acquiescenza, né accettazione, ma confronto (anche aspro, ma con le armi dell’argomentazione) serio  alla ricerca di una convivenza decente.  È su questa base, dal conflitto che induce l’alterità, che possono prendere corpo pratiche effettive di intercultura, troppo spesso richiamata con faciloneria e approssimazione. In breve, perché possano rafforzarsi politiche e pratiche di tolleranza dovremmo avere presente quanto segue: la tolleranza è contestuale e relazione; tollera chi governa e chi è maggioranza; la tolleranza richiede impegno delle istituzioni e dei singoli insieme a una continua disposizione al dialogo. Sul piano della nostra quotidianità, dovremmo tenere presente che tollerante non è colui per il quale “tutto va bene” e per cui tutti le visioni sono sulle stesso piano, ma colui che non rinuncia a combattere (con le armi della convinzione) per l’affermazione delle proprie idee, sapendo che gli altri hanno pari diritto di farlo e che quanto esprimono è per loro altrettanto significativo.  Dovremmo, infine, tenere presente che, se siamo davvero affezionati alla cultura occidentale, la tolleranza  è uno dei fattori costitutivi del nostro immaginario sociale. Dimenticarlo sarebbe un bel regalo a tutti gli integralisti di varia estrazione e religione. Mi piace concludere questa intervista ricordando Voltaire  per il quale la tolleranza era si l’appannaggio dell’umanità, ma l’intolleranza era un “mostro” sempre in agguato. In un periodo difficile e di crisi, come quello che stiamo vivendo, dove le pulsioni irrazionali e le paure emergono con maggiore virulenza, non dovremmo mai dimenticarlo. 

Maria Giovanna Farina




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L'accento di Socrate