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La Felicità (secondo me)


Di recente mi sono dovuto occupare di quella sfuggente ed ambigua entità spirituale che viene comunemente chiamata Felicità.

È accaduto per motivi e in circostanze che è trascurabile stare a menzionare, qui ed ora. Fatto sta che la ricerca di saperne di più mi ha letteralmente destabilizzato.

Eh, sì; perché, semmai esista realmente (e nutro parecchi dubbi a riguardo) la Felicità non è nelle mie corde. Non mi appartiene, non la provo e probabilmente nemmeno la bramo. Insomma, mi ritengo e mi dichiaro tutt’altro che una persona “felice”. E tant’è.

Guai a dirlo esplicitamente, giacché la frase stereotipica con cui mi si risponde a questa mia dichiarazione è noiosamente sempre la stessa: “Ma come… ma cosa ti manca… in fin dei conti hai una famiglia, una professione, una casa… hai questo… hai quello… hai ciò che altri desidererebbero avere…”. Va sempre, così.

Non so se leggendo vi è saltato agli occhi, ma il verbo dominante di tale replica è “avere”. Peraltro nella sua accezione esasperata di “possedere”.

Nulla che abbia a che vedere, quindi, con il concetto di “essere”; con buona pace di Fromm.

E nemmeno, con quello di “sentire”, nel senso di “percepire” in se stessi quello stato di benessere che si potrebbe azzardando arrivare a definire Felicità. Nulla di tutto questo.

Nel pensiero comune sei Felice se “hai” qualcosa, se è nel tuo possesso o dominio: se no, non vale.

Anzi, siccome tu “hai” qualcosa che socialmente devi “avere” per essere felice, zitto e mosca. Non lamentarti. Sei felice. Te lo diciamo noi, brutto ingrato di una sottospecie di intellettuale.

Non fa nulla che la pappa ti provochi diarrea e dolori di pancia, la mangi e zitto; che i “bambini del Biafra” non ce l’hanno. Così ci dicevano al tempo della nostra infanzia. E ci ingollavano di tutte quelle schifezze che, ora, la scienza moderna ormai reputa pericolose per la salute; ma che dovevamo introitare obbligatoriamente non perché ci nutrissero, ma perché in una regione del continente africano c’erano nostri coetanei che non ne avevano neanche un po’. Dovevamo, quindi, “sentirci” felici di averne disponibilità.

Che poi lo fossimo davvero, interessava poco ai nostri educatori, parentali o tutoriali che fossero. La forma era salva. La nostra psiche un po’ meno, minata com’era da quegli instillati sensi di colpa che continuano a tormentarci ancora oggi a quasi sessanta anni di distanza. Altro che Felicità.

Voglio venire a giocare sul vostro tavolo, cari benpensanti.

Felicità, come sostenete, è dunque “avere” qualcosa ? Bene.

E come mai quando tirate fuori questo sfrontato teorema vi riferite soltanto al possesso di beni materiali ?

Avete idea, ad esempio, di cosa significhi “avere” (nel senso di “ricevere”, non di possedere) un bacio ? E di cosa significhi, al contrario, non averlo più ?

Pensate che ci si possa sentire felici non avendone uno da anni ? Ci si deve, a riguardo, sentire felici solo perché in surroga ci si può permettere una serata in pizzeria ogni tanto ?

E sapete cosa significhi “avere” (nel senso di “scambiarsi”, non di possedere) un abbraccio ? E una carezza ?

Ma davvero, cari benpensanti, pensate che si possa essere “felici” con tanta disponibilità di nutrimento materiale e scarsissima possibilità di companatico emozionale ?

Si potrebbe tagliare corto dicendo che, pertanto, la Felicità non esiste.

E felice è solo chi si illuda di esserlo. Ma in realtà la faccenda è assai più complessa.

Se così fosse il tema (anzi, il problema) della felicità non sarebbe stato affrontato, sviscerato, dibattuto da millenni.

La stessa Filosofia, che pure è palcoscenico di idee anche più concrete che il benessere di anima e corpo, si è impelagata a lungo in correnti speculative di tutte le matrici e le valenze che se ne sono occupate.

Addirittura la ricerca della Felicità ebbe (come al solito dalle parti dell’antica Grecia) una propria scuola di pensiero dedicata: l’Eudemonismo. I cui componenti guardavano in cagnesco (secondo me anche con po’ di invidia) i loro colleghi che predicavano l’Edonismo, basato sulla ricerca del Piacere immediato. Ovvero, godere ora e subito, e chi se ne impipa se dopo ci si sente anche felici.

Epicuro tentò di addomesticare ad un minimo di ordine il concetto di Felicità, asserendo che il suo raggiungimento poteva verificarsi se nel corso della propria vita l'uomo riesce a scrollarsi di dosso il Dolore: sia quello fisico (aponia) che psichico (atarassia). Scontato, diremmo con il senno di poi.

Ma probabilmente qualcuno gli doveva avere già raccontato che da qualche parte del mondo, andando verso l’orizzonte da cui sorge il sole, un bel po’ di anni prima un ex principe regnante (tale Siddhartha Gautama) che aveva abbandonato il suo palazzo per andare a pensare in santa pace) aveva espresso grosso modo le medesime considerazioni. Peraltro in forma più poetica ed appassionante. Quel nobile fuori autoesiliatosi oggi lo chiamiamo il Buddha.

Naturalmente anche le grandi religioni monoteistiche si appropriarono della necessità tutta umana di conseguire la Felicità, rendendola tanto aderente alle proprie professioni da convincere a riguardo un bel po’ di seguaci anche nelle generazioni successive. Addirittura inducendoli a conseguirla con le armi in pugno; magari non arrivava puntualmente su questa terra come promesso; ma la si sarebbe conseguita certamente dopo. Nell’aldilà. Garantito.

Nietsche fu un altro piuttosto scettico a riguardo. Difatti, ammoniva sulla “sazietà” che giunge ad inibire la capacità e la voglia di fare, di agire, di produrre quando ci si ritrovi tutto ad un tratto “felici” e di conseguenza ci si culli indolentemente in tale condizione.

Di certo man mano che ci si avvicina ai giorni nostri, il Pensiero ha sempre più relegato la speculazione filosofica sulla Felicità ad ambiti essenzialmente psicologici ed intimistici. Roba da periodici di costume (stavo per scrivere “giornaletti femminili”, ma se lo avessi fatto temo che mi sarei ritrovato a bruciare sul rogo della Grande Madre) invece che da tomi accademici.

In ultima analisi, la felicità è faccenda personale. Intima come slip e reggiseni. Irraggiungibile come l’orizzonte di una distesa oceanica.

Che ognuno abbia pietà e soprattutto pudore di se stesso, quando ci pensa un po’ sopra. Come ho fatto io in apertura di queste (un po’ deliranti) riflessioni, ritrovandomi ad autodenunciare la mia assoluta mancanza di elementi e motivi che mi rendano felice.

Per chiudere, ricorro alle parole di un intellettuale italiano della prima metà del XX secolo nei confronti del quale provo una tale devozione da essere andato a posare un fiore sulla sua tomba al Cimitero romano del Verano.

Si tratta di Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri (Roma, 26 ottobre 1871Roma, 21 dicembre 1950) meglio noto con il suo pseudonimo anagrammato: Trilussa.


C’è n’ape che se posa / sopr’un botton del rosa: / l’annusa, e se ne va… / In fonno, la Felicità / è na piccola cosa.” (Felicità, da Acqua e Vino, 1927).

Cosimo Lerario, medico e scrittore (Febbraio 2022 - Tutti i diritti riservati©)



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