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Controanalisi dell’Ego

Appunti di una filosofia del Romanticismo


L’io cos’è? E’ un rapporto che si rapporta a se stesso oppure è nel rapporto, il rapportarsi che il rapporto si rapporta a se stesso”1. Questo è ciò che indica Kierkegaard all’inizio de “La malattia mortale”e vuole essere il viatico per una delle sue ultime opere, quella forse più significativa e rappresentativa dell’intera sua produzione. Essa riveste un valore antropologico e implicitamente metafisico tale da essere riconosciuto da autori quali Heidegger. Il principio fondante e archimediano dell’enunciato sopra citato è la “dualità archeologica”, dicotomia che rappresenta il prisma attraverso cui filtra e riluce il mondo esterno, quell’in-sé che si mostra attraverso la determinazione dell’intelletto, la sua caratura noologica, cioè l’aspetto che fornisce il senso alle “cose”. Kierkegaard utilizza questo asserto in un ambito di “psicologia cristiana”, come recita il sottotitolo della sua stessa opera, in una delimitazione di campo che lui si stesso si era imposto ma che gli era necessaria per “l’edificazione e il risveglio” per un pungolo basato sulla lettura personale dei vangeli che non risultasse meramente consolatoria. Tuttavia occorre precisare che le implicazioni filosofiche e in qualche modo metafisiche gli erano ovviamente ignote, o comunque non rivestivano un suo interesse precipuo ma sappiamo quanto esse siano state decisive per le sorti del pensiero contemporaneo a cavallo tra Romanticismo ed Esistenzialismo. La lettura dei suoi testi, di questo in particolare, porta a privilegiare una lettura fondativa, non esente da esiti di pensiero ed estetici presente nella contemporaneità. L’opera di Kierkegaard è alla base del pensiero esistenzialista, secondo quanto si afferma dello stesso Heidegger2: l’Ego viene posto al centro dell’intera riflessione. Tuttavia l’io di cui trattasi non è quello puro, trascendentale in quanto trascendente ( che si pone al di là dell’esperienza) del pensiero moderno, da Cartesio a Kant, ma un principio “ibrido”che non domina se stesso e che ammette dei territori inesplorati dall’Io. Lo “γνῶθι σεαυτόν” socratico si colora di una prospettiva affatto nuova e rivoluzionaria nel significato e nelle conseguenze, in quanto si può porre come una realtà teleologica legata a questa sua datità caratterizzata e caratterizzante che dà senso a tutta l’attività conoscitiva del soggetto. Nell’antica Grecia l’io veniva posto come un aspetto fondativo ed estetico, tale da porre in modo adeguato la determinazione duale riguardante la natura e il mondo conseguendo da ciò esiti panteistici e monistici. L’io cioè era la corretta indicazione di una dicotomia non sempre perspicua tra natura e spirito. Il dualismo tra io e Dio risulta solo secondario in tal senso. Conseguentemente anche il pensiero cristiano si colloca in questo solco, quando Tommaso d’Aquino nella “Summa contra gentiles” pur determinando la possibilità dinamica dell’autocoscienza (alla quale attribuirà un valore di prova dell’immortalità dell’anima)3, tuttavia in apparente polemica con Agostino, egli affermerà appunto che “quelle conoscenze che dipendono da cose innate in noi per natura, sono naturali: come sono innati in noi i principi indimostrabili che vengono conosciuti mediante l’intelletto agente, perciò se noi avessimo la conoscenza immediata della natura dell’animo, questa sarebbe una conoscenza naturale”, ma ciò, prosegue l’Aquinate, è evidentemente falso perché molti hanno errato nell’ indagare la natura.4 E’ singolare come in questo capitolo Tommaso usi il termine “quidditas”, quasi a sottolineare la reificazione di un ente che solo Dio può conoscere totalmente, in quanto ne è la causa prossima e remota. La domanda sull’io si capovolge nel “che cosa” sono io, cioè in tutta quella struttura egologica che si manifesta nella vita psichica. Qui non possiamo non ritornare all’inizio del pensare, a quella "φύσις” da cui è emerso il primo barlume filosofico. Ciò che si contrappone apparentemente all’Io in realtà ne è il presupposto. Giustamente E. Severino interpreta il senso presocratico della natura come il senso dell’essere. La radice indoeuropea di questo termine indica tanto la parola “essere”, quanto la parola “luce”, tant’è che la sintetizza plasticamente con l’epiteto “cura per il luminoso”5. La traduzione latina “natura” può essere ancora più efficace perché derivante dal verbo “nascor”, azione di “come” gli enti, le cose si pongono, o meglio si danno. La Natura si pone quindi come una sorta di immanenza assoluta, ciò senza cui l’uomo antico non sapeva concepirsi e pensarsi, un io che non è pienamente tale ma che non è nemmeno riconducibile ad un’oggettività sacra, ma semmai un correlato oggettivo che si pone come elemento dato e perpetuo, infinito perché indefinito in quanto legato ad una materia da sempre presente. Vogliamo in questa sede sottolineare quanto quest’aspetto sacrale della “φύσις” determini una forma di religiosità molto diversa rispetto alle visioni monoteistiche dell’era volgare. Camus 6 ha indicato come la divinità di Zeus venga inserita nel pantheon ellenico, quasi fosse parte di un tutto, come elemento immanente che soggiace ad unica legge anche essa immanente che è quella del Fato a cui tutti indistintamente debbono obbedire: dei, uomini, natura. Tale Fato più che un’ulteriore divinità si delinea come elemento cinetico dell’essere, la ragione spesso arbitraria a gratuita di un tutto che si evolve senza un telos apparente, una forza creatrice la cui cifra rimane nascosta all’elemento umano e anche divino. L’Ανάγκη, infatti, non aveva volto, non veniva venerata, perché nella sua necessità arbitraria non poteva essere un’interlocutrice, se proprio la si doveva rappresentare, la si raffigurava con le braccia tese ed aperte quasi a delimitare quel tutto che cinge, governandolo. Il Romanticismo si appropria in modo riflesso, cioè consapevolmente e quindi conferendole anche una veste anche filosofica, di questa modalità di pensare la natura e i vincoli corrispondenti di una religiosità antica che così viene ripristinata, e l’antesignano di ciò lo cogliamo in Hölderlin al crocevia tra classicismo e modernità, ebraismo e cristianesimo. La Natura, secondo quanto egli scrive, è principio ed elemento del cosmo e degli esseri che lo popolano, è l’unica che può generare la vera poesia, “l’estasi ardente”. Il lirismo dei Greci scaturisce da ciò. IL suicidio stesso, che per la modernità rappresenta l’atto estremo di ribellione nei confronti di un ordine ritenuto implacabile ( ricordiamo solo esemplificativamente Shakespeare, Alfieri, Foscolo, Goethe, ma soprattutto von Kleist per i riscontri biografici di tale posizione), per i Greci comunque è da ricondurre ad una realtà inserita in ordine razionale e assoluto depotenziandolo da ogni caratteristica drammatica. Non possiamo non ricordare a tal proposito, il cirenaico Egesia e soprattutto gli stoici che considerarono tale gesto come quello che interpretava e a volte preveniva l’ordine della natura intesa come Fato.

La dualità insita nel’Ego, che abbiamo seppur sommariamente cercato di evidenziare, va dunque capovolta, l’io come elemento gnoseologico e teleologico dell’Ego si pone come elemento trascendentale, indispensabile per ogni conoscenza dell’individuo. Accanto a ciò troviamo un principio non pienamente conosciuto che si salda con la realtà e che l’io, il sé, cerca perennemente di superare e di assimilare. Le cose come Erlebnisse si danno in questa sfera e rappresentano la prensione totale della realtà, il materiale indispensabile della conoscenza e il senso che ne deriva. La fondazione di questo ambito viene fornita dal primo elemento in quanto ne deduce quella che Kant definiva appercezione autocosciente. La relazione tra questi due ambiti è a sua tempo un altro rapporto, una sintesi in quanto legata alla autocoscienza, come giustamente indicava Kierkegaard nel passo sopra menzionato. Il Novecento ha scoperto questa la dimensione della datità dell’essere, metafisico e gnoseologico, riferendoci particolarmente ad Husserl e a Heidegger, ma è possibile trovarne traccia anche nell’ambito letterario, ad esempio nella scrittura di Joyce quanto nell’universo proustiano, quanto nell’ambito della psicanalisi dove territori sino ad allora sconosciuti si sono mostrati in modo inequivocabile. La dignità letteraria conferita alla memoria involontaria si salda con la caratterizzazione narrativa che pone le basi per una diegesi nuova ma non rassicurante, uno scandaglio profondo e talora sublime dell’io. Il recupero di questi elementi mnestici nella “Recherche” asssume una cifra di esaustività che non può non rimandare ad un assolutezza di dimensioni filosofiche. Di questo ben si avvede Ricoeur7 laddove pone la temporalità proustiana in una categoria “trascendente”, utilizzando questo termine in questo caso in un’accezione quasi esclusivamente estetica. Esso trova il suo punto di sintesi e di scioglimento nel “ Tempo ritrovato” che fornisce senso all’ immanenza dell’intrigo del racconto, così come il Narratore instancabilmente indica e plasma. Leggere il Novecento può voler dire perciò considerare aspetti che si congiungono in ambiti precedentemente considerati diversi. Letteratura, riflessione filosofica, arte, in modalità differenti, percorrono lo stesso sentiero seguendo approcci molteplici, ma non per questo meno corrispondenti, ma tutti ci indicano quanto sia difficile uscire da una lettura romantica della realtà, di un Ego sintesi di nuovo e moderno epperò perennemente in rivolta nei confronti della realtà stessa.

Note al testo:

 1- S. Kierkegaard, “La malattia mortale”, Firenze, 1973, pag. 215.

 2- G.Vattimo “Introduzione a Heidegger”, Roma-Bari, 1997, pag.11.

 3- Tommaso d’Aquino, “Summa contra gentiles”, Torino, 1975, libro II, cap. 51, pag 378.

 4- Ivi, libro III, cap.46, pag. 652.

 5- E. Severino “La filosofia antica”, Milano 1987(4), pag. 23.

 6-A. Camus, “L’uomo in rivolta”, Milano 1994, pag. 36.

7- P. Ricoeur, “Tempo e racconto”, Milano 1987, vol. II, pag.224.



Mario Guttagliere, docente di Filosofia (Aprile 2017- Tutti i diritti riservati©)


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