CHI SIAMO

ARCHIVIO

REDAZIONE/CONTATTI/COLLABORA




Un uomo che ama il suo paese e

lo vuol far conoscere al mondo intero: Khaled Husseini




Il cacciatore di aquiloni” mi aveva fatto piangere, “Mille splendidi soli”(libri tradotti in 70 paesi e di cui son state vendute decine di milioni di copie) mi era piaciuto ancor di più, per avermi permesso di continuare a conoscere il mondo affascinante dell’Afganistan ed essendo meno crudo, meno duro rispetto al primo, mi aveva conquistato. Bellissimo.

Quando mi hanno detto che usciva il terzo libro dello stesso autore, Khaled Hosseini, ed ho sentito i commenti dei critici – è il più bello che abbia scritto – non ho potuto aspettare un giorno di più e l’ho acquistato. “E l’eco rispose”. Non stavo nella pelle, chissà che meraviglia…

Poi però … ho subito in un certo qual modo un sentimento di delusione, di fatica.

Se un libro mi piace lo inizio e non lo lascio fino a che non ho raggiunto l’ultima pagina, il che vuol dire un giorno, due; potendo permettermi questo lusso mi immergo nel mondo raccontato e lo vivo con piena partecipazione. Com’è che dopo una intera giornata mi trascinavo il libro per casa e lo continuavo ad aprire e chiudere? - C’è qualcosa che non va-, mi son detta, - verrà fuori più avanti.

Ed invece, dopo 5 giorni l’ultima pagina era ancora lontana, nonostante il racconto mi piacesse abbastanza. Appunto, abbastanza, ma non in modo così assoluto come era stato per gli altri due e come spesso lo è per i libri che leggo.

Non ho la pretesa di giudicare in assoluto un libro, non sono un critico letterario, dico solo il mio parere, ma ho parlato della mia delusione con amici con cui condivido il mio leggere, e ahimè nelle settimane successive mi hanno confermato di aver provato lo stesso sentimento.

E’ un bel libro, non un capolavoro; ci è piaciuto, ma non ci è parso il libro più bello di Hosseini.

Questa affermazione può essere soggettiva, mi dico anche che può aver contato anche l’aspettativa creata attorno ad una nuova uscita, che può aver alimentato speranze esagerate, ma non mi sentivo coinvolta e commossa, cosa per me irrinunciabile, sia nelle storie allegre che tristi.

Il libro, dicevo, è bello: ben scritto, racconta di grandi sentimenti, di amore, di genitori e figli, di amicizia e sensi di colpa, ma è incentrato sul sentimento indistruttibile tra un fratello e una sorella, Abdullah e Pari. Un sentimento che nemmeno il tempo e le distanze riescono a scalfire.

Parla certamente dell’Afganistan, della sua realtà che è fatta anche di durezza, violenza, crudeltà e guerra, ma in questo libro l’Afganistan fa quasi da sfondo alle vicende, non è più protagonista come nei due libri precedenti. Il racconto è quello di una storia famigliare intensa e complicata, forse troppo complicata, con troppi personaggi, troppi flash back difficili da seguire, come se l’autore si sentisse in obbligo di continuare a scavare, cercare, apportare colpi di scena in questa lunga vicenda. Insomma la lettura non è così fluida come mi sarebbe piaciuto, a volte ho faticato a seguirne il filo.

Khaled Husseini è un medico americano, nato a Kabul da genitori afgani emigrati negli Stati Uniti quando lui aveva 11 anni, che si sente afgano dentro e un poco in colpa per aver abbandonato il suo paese. Il suo sogno era poter vivere con la scrittura e quando se l’è potuto permettere per il successo mondiale ottenuto col primo romanzo, ha lasciato la medicina, l’ospedale ed i suoi pazienti, per dedicarsi ai libri a tempo pieno.

Egli dice che tutta la sua scrittura e i suoi romanzi sono sempre dedicati al suo paese e vogliono farne conoscere i lati più sconosciuti. Ad esempio l’onestà della popolazioni, la dignità dei giovani, la forza d’animo delle donne. Dice anche che nel suo paese le cose cambieranno, - se le donne avranno finalmente il ruolo che spetta loro, nella vita politica economica e sociale, perché le donne afgane sono una risorsa fondamentale per il paese ed hanno tutte le competenze necessarie.

Ho cercato delle interviste realizzate con lo scrittore, proprio per approfondire, capire e mi sono imbattuta nell’espressione – voglio dare voce a chi nel mio paese non ce l’ha – e questo lo fa molto bene.

Giuliana Pedroli  socia fondatrice dell'associazione culturale L'accento di Socrate

(Tutti i diritti riservati©)


Condividi i tuoi commenti con noi

PAGINA DI DISCUSSIONE SU FACEBOOK: CLICCA "Mi piace" su L'ACCENTO DI SOCRATE



Torna indietro

L'accento di Socrate