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Scrittura primo amore: un grande argomento filosofico

 

In occasione dell’uscita del nuovo libro di Duccio Demetrio “Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione”, Raffaello Cortina 2011, abbiamo posto qualche domanda all’autore per aiutarci ad amare e, perché no, a recuperare la scrittura. Lui che di scrittura crea incontro alla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, ci ha dato risposte come sempre generose

Dopo tanti scritti e libri sulla scrittura di sé, come Raccontarsi, Autoanalisi per non pazienti, La scrittura clinica, era necessario tornare sull’argomento?

Questa volta mi sono proposto di offrire ai lettori qualche idea per comprendere i motivi che ci spingono ad amare la scrittura. A cercarla ben oltre le consuete esigenze. Quando ce ne avvaliamo per puro appagamento interiore, per ragioni del tutto personali e tale desiderio ci appaia suggerito da una necessità inconscia, più che da un tornaconto. Dall’urgenza di far sapere qualcosa a chicchessia, da un programma prestabilito. Scrivere non è soltanto un dovere, connesso allo studio o al lavoro, è anche una passione disinteressata, estranea ad ogni ambizione letteraria. Delinea la nostra storia all’insegna di una consapevolezza di vivere tutta particolare e tale da costituire un tratto distintivo, esibito o segreto, della nostra persona. È una diversa modalità di intrattenere rapporti: quando la voce viene meno o le sue parole siano inadeguate, malferme, troppe o troppo poche. La scrittura sa sfuggire alle leggi dell’utilità immediata, degli obblighi e dei rituali sociali più superficiali. Ci appartiene intimamente. Non siamo sempre e soltanto, grazie a lei, i rivenditori di quel che abbiamo imparato a fare, a pensare, a dire. I vantaggi che può offrirci sono di altro genere, non hanno prezzo. In solitudine, incuranti degli altri, nostri giudici e lettori, li abbiamo scoperti dosandoli a nostra misura secondo l’estro, le esigenze del momento, lo stato d’animo. È la sua umile e tenace vocazione. È il genio ubbidiente, sempre vigile, che parrebbe assopito nel nostro calamaio. Senza avvertirci, può però fuggire via. Emerge dal buio, insegue spontanee associazioni quasi in preda ad un raptus, allora ci lasciamo trasportare da quella vitalità senza opporre resistenza. È infatti una pulsione, dobbiamo assecondarla. Ci dona sensazioni di libertà creativa, riuscendo a turbare i momenti di quiete, mutandoli in un raccoglimento pensoso. Ci consiglia di rallentare il passo, ci spinge senza complimenti a guardare in noi stessi. Mentre scriviamo e dopo, quando le parole si asciugano, ci spinge a cercare il silenzio, a sfidare il frastuono. Riempie i nostri istanti vuoti, mostrandoci che dalle strette feritoie può filtrare nuova luce.

A chi si rivolge il libro?

 Agli scrittori per diletto (non ai dilettanti che si dannano pur di pubblicare qualcosa anche di modesto): sono donne e uomini che non soltanto da oggi scrivono solamente per se stessi. Non lo fanno sapere a nessuno, non partecipano a premi letterari. Sono costoro una figura sociale interessante che ho imparato a conoscere tra gli allievi della scuola di scrittura autobiografica alla Libera Università dell’autobiografia di Anghiari, in provincia di Arezzo fondata e diretta da me più di dieci anni fa www.lua.it Li definisco anche “scrittori senza lettori”, lavoro con loro e per loro. Scrivono per crescere interiormente soprattutto.

Oltre alle pubblicazioni di carattere saggistico, la scrittura di diari, poesie e pagine letterarie: che valore ha per Duccio Demetrio la scrittura?

Io scrivo sempre, ne ho un bisogno vitale. È diventata una mia inconsueta amante ormai, ufficiale e clandestina, è un’amante che vuole essere capita e non solo amata con passione. Quale sia l’appellativo assegnatole, ritengo che meriti più riflessioni filosofiche; più di quante non si riesca di solito a tributarle. Troppo intenti a decidere che cosa scrivere e come, per chi, a che pro, entro quanto tempo; troppo incuranti e distratti, rispetto ai perché essa sia un oggetto oscuro, sfuggente, indecifrabile del desiderio di sapere di più chi siamo. La scrittura ci aiuta a capirci di più o, per lo meno, a comprendere perché moltissime persone non ne possano fare a meno ed io sono tra costoro. La scrittura ha bisogno di essere liberata dalla consuetudine che la ritiene soltanto una pratica o un oggetto di analisi linguistiche, critiche, storiografiche, ecc. Dobbiamo liberarla nondimeno dagli impieghi superficiali e melensi, talvolta troppo intimistici, che la relegano tra i buoni sentimenti, tra le care cose di ”pessimo gusto”. La scrittura, la più dimessa, cela in sé tutte le prerogative per diventare ed essere un grande argomento filosofico della nostra esistenza. Il pensiero introspettivo, indagatore di senso che lo scrivere secerne e riattizza, sta a dimostrare quanto lo scrivere per “diletto” sia veicolo di elevazione intellettuale e morale, ci sprona a non indulgere nel più vacuo racconto di sé, ad imparare a far “senza di noi”. Come se l’uso della prima persona ci dischiudesse alla terza e poi oltre; scrivendo, riscopriamo il plurale, il tu e il noi, ci sporgiamo sulla vita, la “ariamo” diceva Roland Barthes. L’interroghiamo per comprendere come si sia incistato in noi un tale vizio, che cosa ci chieda ancora. Scrivere è sorgente inesauribile di indagini autoanalitiche alla ricerca delle domande da porre agli uomini, a dio, agli altri. Ci rinvia al compito di coniugare la via letteraria e poetica, la più impressionistica, con la ricerca dei valori nei quali ci riconosciamo e che contribuiamo a incarnare anche grazie a lei. Per tale motivo, per difenderla da ogni sottovalutazione spicciola, mi è dato capire perché non si sia più allontanata dalla mia esistenza, da quando ci incontrammo la prima volta e perché continui a cercarla. Oltre il dovuto, lo so. Non mi ha reso, né renderà certamente ricco; mi ha dato ben altro: agiatezze immateriali ed emozioni a iosa, quelle sì. Innumerevoli.

Il libro ricostruisce le origini di questa passione, dedica un capitolo al suo elogio, un altro a “scrittura primo amore”. Quali sono stati quei primi passi….

L’amore per la scrittura, il desiderio di intrecciare tra loro parole da noi create, perché da esse un senso appaia, un messaggio prenda forma, è indizio di un legame fatale. Vano negarlo. Più forte e indissolubile di un affetto umano, è capace di aiutarci a comprendere la bellezza incontrata, sa trattenere gli istanti di gioia più luminosi, mutandoli in un racconto. È una passione cui siamo predestinati, che non ci abbandona: se decidiamo di dischiuderle la porta, si accaserà in noi. Come un sesto senso, un campanello d’allarme, un animale domestico. Scrivere è intuire, è avvertimento prima che sia troppo tardi, è istinto capace di risvegliarsi all’improvviso, ma non tutti sopportano quest’ospite che ci interroga, nell’istante in cui lo vediamo apparire. “Io mi lancio nella scrittura a corpo morto”,  confessa Joel Clerget, ciò può spaventarmi poiché è come se perdessi il mio corpo dando corpo con le lettere a quelle mie parole che deposito sulla pagina. Scrivere è rifiutare la propria immagine quale si manifesta quando mi guardo allo specchio per assumerne un’altra. Comprendiamo, così, che chi ami scrivere è disposto ad accettare di rifiutare la propria immagine abituale per inventarne e scoprirne un’altra. Scrivere con passione non può quindi essere un bene di tutti, non tutti desiderano porsi le domande, spesso scomode, verso le quali ci conduce. Se la scrittura ha scelto di abitare con noi, si può star certi che girovagherà e frugherà nella memoria, riuscirà a penetrare, prima o poi, in ogni stanza della nostra coscienza. Essa predilige la notte, non a caso, per questa occupazione e non si assopirà nemmeno quando, finalmente, prenderemo sonno. Le piace tenere gli appunti dei sogni, per suggerirci al mattino che cosa scrivere dei luoghi visitati, se le abbiamo lasciato lo spazio che ci chiede, saprà guardare per noi dalla finestra quando preferiremmo tenerla chiusa nei momenti di afa esistenziale. Ci è vicina nella sofferenza, non ci tradisce e assolve peccati altrui, ricorriamo infatti alla penna per sopportare il male di vivere, per uscire dal buio, per perdonare.

E veniamo ora al sottotitolo del libro, cosa c’entrano i miti con la scrittura? Come si legge nelle prime pagine, i Greci, a differenza degli Egiziani, degli Indiani, non inventarono una divinità della scrittura. Prendendo le mosse da questa mancanza, viene messa al mondo una nuova Musa (la decima). Al di là dell’artificio letterario era necessario scomodare la mitologia classica?

Sì, era indispensabile, anche perché che io sappia, non si è mai stabilito un nesso tra il gesto di scrivere con le emozioni, i sentimenti, i significati che i miti contengono. Nota è la citazione di Carl Gustav Jung “Sono i miti che devono spiegarci e non noi loro”. I miti quindi, alcuni fra questi, da me prescelti e ripresi con poche righe, nuovamente ci chiariscono perché il nostro inconscio è attratto dalla scrittura. Le storie che raccontiamo, indipendentemente dai loro contenuti, molto hanno in comune con il concetto di mito. I miti erano e sono racconti; tale era il senso del termine mythos. Nel linguaggio più corrente e usuale, fino alla banalizzazione, si rende “mitico” tanto chi sa raccontarci con abilità inusuali qualcosa che non sapevamo suscitando il nostro stupore, quanto l’argomento narrato. È nondimeno “mito” chiunque eccella: in bellezza fisica, in capacità, nel compimento di imprese che lo pongano in una posizione superiore o diversa dalla media. Anche i luoghi, i fatti singolari, i tempi vissuti, i paesaggi assumono lo stesso significato. Il mito, ieri, in quel lontanissimo ieri, ed oggi, è di conseguenza un racconto a tal punto esemplare da diventare paradigmatico. Io sostengo che la tipologia delle emozioni che proviamo dinanzi alla memoria, all’oblio, alla passione amorosa, alla oscurità, alla ricchezza, ai cambiamenti esistenziali, allo smarrimento, alla perdita (di cui la scrittura scrive), ecc. Il mito agisce attraverso la penna senza che noi lo si comprenda, ma successivamente, rileggendoci, scopriamo che dentro quello che avevamo scritto vediamo riapparire alcune figure leggendarie: riappaiono Apollo, Aracne, Atteone, Orfeo ed Euridice, Narciso, Pandora, le terribili Danaidi, ed altri ancora. Da millenni scriviamo di loro ma in verità noi scriviamo grazie a loro, il mito ci spiega qualcosa che non riuscivamo ad intendere, ci suggerisce interpretazioni, anche controverse ed ambigue, utili e necessarie alla nascita e allo sviluppo di quelle bussole.

Nelle pagine centrali ecco il concetto di “Mitopoiesi” riletto in una chiave filosofica e per alcuni aspetti anche clinica. Di che si tratta?

L’esercizio può risultare eccentrico e poco interessante e in effetti potrebbe essere così ritenuto, ma poiché la mente dello scrittore per diletto (e di ogni intellettuale che si rispetti) è una mente che elegge la curiosità a meta precipua, tanto quanto l’inesausto miglioramento della consapevolezza, in gioco c’è la qualità chiamata coscienza. In particolare la coscienza di sé, la voglia di scoprire se l’entelechia che ci va guidando da qualche parte può essere meglio individuata attraverso l’alleanza felice tra la scrittura e il sapere mitico. Ci rammenta Leszek Kolakowski che noi ci distinguiamo dagli altri esseri viventi soltanto perché siamo dotati di sentimenti: ”Bensì perché possiamo farci oggetto di noi stessi … siamo in grado di scindere la nostra, la quale può diventare l’osservatrice di se stessa “; e inoltre, perché: “Sappiamo di possedere una coscienza che è consapevole di essere coscienza”. Il filosofo polacco conclude: “Grazie alla produzione di utensili, l’uomo ha reso mediata anche la sua relazione con se stesso”. Lo stilo, la penna, una tastiera, sono questi utensili produttori di oggetti immateriali che dobbiamo imparare ad usare al meglio; ci occorrono, in questo caso, per comunicare a distanza di tempo ed oggi, in una simultaneità interattiva che non ha precedenti. Tuttavia la scrittura nel mentre vuole comunicare, trasforma il comunicatore molto di più della parola. Oltre a “fare poiesis”, a creare messaggi, a differenza di altri utensili, mette l’emittente nella condizione di essere un tramite sensibile al senso di quanto va facendo. A patto che ci si trovi, nuovamente, dinanzi a una scrittura con qualche seria implicazione emotiva, che veda lo scrivente sensibile tanto al contenuto quanto alla attività che va svolgendo. Ciò che è interessante, in conclusione, non è soltanto il suggestivo tema mitologico proveniente dalle culture umane scomparse, sono i processi mentali definiti ancora da Ernst Bernhard “mitopoietici”, a dover essere decifrati. Essi ci inducono a scrivere secondo tensioni emozionali che hanno a che vedere con i processi ancestrali che diedero forma ai “mitologemi” - ad espressioni narrative di contenuto mitico – soggiacenti, e rintracciabili, nei movimenti sinuosi, rapidi, pacati dello scrivere.

In conclusione, il mito ci aiuta a ritrovare i nostri centri interiori, a ricostruire bussole impazzite? La scrittura può essere allora il nostro baricentro sempre a portata di mano?

Certamente, purché non ci si metta alla ricerca di un unico centro o del libro finito ma, scrisse Jacques Derrida ad un amico, all’ inseguimento di un testo, di un racconto nuovo, che può sempre ricominciare: poiché l’unico “centro” plausibile per la scrittura altro non può essere che “lo spostamento dell’ interrogazione”. Chi cercasse nelle storie il proprio mito assoluto e definitivo, inseguirebbe null’altro che un proprio bisogno di rassicurazione fallimentare. Legittimo, per carità, ma bene costui o costei è sapessero che così facendo, cercando una scrittura consolatoria, il proprio mito languido e gentile uscirebbe dall’arcano della pensosità inesauribile e inquieta che la mitologia ci affida. Entrare nelle radure luminose o nelle foreste oscure della mitologia è scoprire, al contrario, che già tutti i miti sono in noi, portare alla luce i più tenebrosi e riconsegnare alle ombre i sedicenti più radiosi: questo è il compito del nostro scrivere ed interrogarci per scoprire che siamo più complessi e fecondi di quanto supponessimo all’inizio. Nel libro inizio evocando la ninfa Eco: alla quale ho affidato il compito di rendersi decima Musa. Con l’augurio che il sortilegio che l’imprigiona nella roccia per la cattiveria del dio Pan, possa essere emendato. Ermes, Eros e Psyche mi hanno aiutato ad introdurre le vicende che si intrecciano a racconti minori, con le loro inafferrabilità. La ben celebre maga Circe, alchimista di trasformazioni maschili, mi ha guidato tra gli alambicchi del pensiero filosofico; così come Pandora mi ha spiegato perché la scrittura ci dia conforto e speranza, si trasformi di continuo, aleggi in ogni dove. Ho distinto i miti della scrittura in quattro categorie: la prima si occupa dei miti connessi alla generatività, all’amore; la seconda, alle storie legate a celebri o meno metamorfosi; quindi alle solitudini di chi restò intrappolato in un destino nei silenzi illimitati. Mentre i miti di cura si mostreranno finalmente generosi (all’apparenza) con noi mortali. Infine, ho immaginato che verranno abbandonati alla deriva, alla furia della Danaidi, tutti coloro che non amino scrivere, affinché le terribili sorelle assassine (condannate a riempire un otre bucato), dei loro respinti mariti, facciano strazio di tutti costoro gettandoli nel Tartaro a versar acqua inutile, all’infinito. Nel mentre le delizie caste e quiete dei Campi Elisi, il paradiso cantato da Omero e Virgilio, non potrà che accogliere invece chi la scrittura elesse a sua inquieta e salvifica passione.

Maria Giovanna Farina


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