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Alessandro Bertirotti: pianista e docente di Antropologia cognitiva

La musica come punto di origine della cultura e dell'espressione di Sé



Come unico rappresentante di questa nuova disciplina, puoi spiegarci cos'è l'Antropologia della mente?

L’antropologia della mente si è sviluppata nell’ambito dell’Antropologia cognitiva, così come è stata fondata e introdotta dal mio Prof.re Gavino Musio, Antropologo culturale, con il quale mi sono formato. Una formazione che ha compreso discipline umanistico-scientifiche come la Psicologia Generale, Cognitiva, Sociale; la Sociologia Generale, delle Organizzazioni e delle Religioni; la Primatologia, la Biologia e le Neuroscienze; la Storiografia e la Geografia.

Alla base della Antropologia della mente vi sono due concetti: la mente è il risultato del funzionamento del cervello e ogni singolo individuo possiede nel cervello i neuroni che sono il risultato storico della relazione costante e reciproca che si crea fra il singolo e la cultura. Proprio a questo proposito, il mio Prof.re Gavino Musio parla di Neurone culturale. In sintesi dunque, l’Antropologia della mente studia l’organizzazione dei contenuti della mente attraverso il rapporto con la cultura, evidenziando le interrelazioni che si creano fra il singolo neurone e quelli accanto, come della singola mente con quella accanto, in uno stretto rapporto tra neurobiologia e cultura. Secondo questi principi, l’apporto che la disciplina introduce nel mondo accademico occidentale è particolarmente innovativo.


Quanto è utile la tua preparazione filosofica nell'attività di docente di Psicologia?

Direi che è per me, ma penso lo sia anche per molti colleghi, indispensabile, anche per mitigare ed equilibrare la tendenza, sempre più forte, da parte delle scienze esatte, con la neuro diagnostica, di spiegare fotografando il funzionamento cerebrale. In realtà, per esempio, la PET oppure la FmrI non spiegano affatto il perché del funzionamento del gruppo di neuroni che fotografano, ma evidenziano solo fotografando. È assai probabile che la spiegazione delle mente risieda nella cultura stessa in cui quel gruppo di neuroni è cresciuto, ossia nella mente di colui che interpreta la cultura stessa nella quale si è inseriti. Questa interpretazione è una azione filosofica, proprio perché ermeneutica.


Puoi spiegarci che cosa studia la Biomusicologia?

Nel mio testo del 2003, “L’Uomo, il suono e la musica”, Firenze University Press, Firenze, spiego diffusamente le tre aree di indagine scientifica della materia introdotta da Nils Wallin intorno al 2000. In poche parole la biomusicologia tende a collegare e ad individuare gli eventuali collegamenti fra la dimensione biologica dell’uomo e la produzione della musica, sia in chiave ontogenetica che filogenetica.

E quali le applicazioni?

Sono molteplici, grazie alla sua dichiarata e indispensabile interdisciplinarietà. In campo terapeutico, come ausilio scientifico alla musicoterapia fenomenologica; in campo linguistico antropologico per lo studio della relazione tra suono e significato, nella nostra specie, ma anche in altre; per la zoomusicologia, che studia il modo in cui i suoni sono o meno associati a simboli nel mondo animale; in campo prettamente medico, per ricercare in quale modo il mondo dei suoni può assicurare un certo tipo di comunicazione e contatto quando si è in presenza di patologie della comunicazione oppure psichiatriche; in ausilio alla logopedia e alla psicomotricità, per lo studio delle abilità cognitive umane in generale.


Sei anche un pianista, che posto occupa questa forma comunicativa nella tua vita?

Beh! Tutto è iniziato da lì… e direi che continua a finire sempre lì, almeno nel mio privato. Fin da adolescente, la musica è stata per me il veicolo fondamentale per esprimere la mia identità, senza ostacolare per questo le emozioni. Sono queste ultime che hanno trovato in essa il luogo privilegiato per diventare forma, comunicazione e benessere. La musica mi ha sempre fatto sentire bene, persino nei momenti più tristi, e proprio perché in essa trovavo il luogo in cui sviluppare ciò che il linguaggio non sarebbe mai riuscito ad esprimere. Io e il mio pianoforte ci amiamo ancora moltissimo, anche se ho abbandonato il palcoscenico nel 2000, per dedicarmi all’Antropologia della mente. Anche in questa però la musica trova il suo spazio di ricerca e di studio.


Qual è il valore, secondo i tuoi studi, dell'espressione artistica?

Dal mio punto di vista, come antropologo della mente, direi che primigenio ed altissimo, perché colloco nello sviluppo filogenetico umano la musica al primo posto per il raggiungimento successivo del linguaggio parlato e scritto. La penso, insomma, come Darwin, il quale attribuiva alla musica il ruolo di espressione primaria delle emozioni umane, antecedente alla formazione del linguaggio. Non dimentichiamo in effetti che senza suono non avremmo il parlato umano, come se le due componenti, nel caso della nostra specie, andassero inevitabilmente nella stessa direzione e l’una potesse esistere solo nel caso della presenza dell’altra. www.bertirotti.com


Maria Giovanna Farina presidente dell'associazione culturale L'accento di Socrate

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